Ultimo Aggiornamento 3 Dicembre 2024
Nuovo coronavirus & responsabilità sanitaria
Quello della responsabilità medica e sanitaria è sempre stato un argomento complesso e piuttosto dibattuto. A maggior ragione lo è ai tempi del COVID-19, questa famigerata malattia provocata dalla pandemica diffusione di un agente infettivo subdolo ed ancora sostanzialmente misconosciuto, scientificamente denominato SARS-CoV-2, ma noto ai più come “nuovo coronavirus”.
Ora che l’epidemia sembra sostanzialmente superata (almeno lo è la sua fase più critica), e nell’attesa di constatare se siano fondate oppure no le preoccupazioni di chi paventa una “seconda ondata”, riteniamo utile condividere in questo articolo alcune riflessioni sui tratti caratteristici della responsabilità medica e sulle peculiarità applicative della relativa disciplina, evocate o imposte dalla drammatica esperienza Covid.
INDICE SOMMARIO
- § 1. I presupposti della responsabilità sanitaria nel contesto dell’epidemia da COVID-19
- § 2. Responsabilità medica e COVID-19: il ruolo dell’art. 2236 c.c. e quello della inesigibilità
- § 3. Il problema della responsabilità professionale medica ai tempi del COVID-19 e le iniziative del legislatore in fase di emergenza
- § 4. La soluzione indennitaria e il (sogno di un) sistema “no-fault compensation“
- § 5. Il mito della responsabilità penale del Medico ai tempi del COVID-19
- § 6. Le criticità del nostro S.S.N. evidenziate dal COVID-19: il punto di vista della Corte dei Conti
- § 7. Responsabilità medica e sanitaria: cosa possiamo imparare dall’esperienza COVID-19
§ 1. I presupposti della responsabilità sanitaria nel contesto dell’epidemia da COVID-19
I presupposti di un istituto giuridico non mutano, è appena il caso di segnalarlo, perché ci si trova in una situazione di emergenza. Colpa, danno e nesso causale erano i presupposti della responsabilità professionale medica in epoca pre-Covid. Colpa, danno e nesso causale rimangono i presupposti della responsabilità professionale medica ai tempi del Covid.
Ciò che cambia, beninteso, è l’àmbito nel quale detti requisiti debbono essere collocati. In proposito, l’emergenza epidemiologica che il nostro sistema sanitario si è trovato costretto ad affrontare presenta, per definizione, connotati e peculiarità del tutto inediti:
- la novità del virus e della patologia che esso determina;
- l’assenza di protocolli o buone pratiche clinico-assistenziali (e men che meno di linee guida) per il relativo trattamento;
- la mole di pazienti da gestire nello stesso contesto spaziale e/o temporale;
- la limitata disponibilità delle risorse necessarie ad affrontare l’emergenza (dai posti letto in terapia intensiva, ai macchinari di ventilazione, agli stessi dispositivi di protezione individuale);
- la necessità di una riallocazione, ancorché temporanea, del personale sanitario, che obiettivamente si è trovato spesso ad operare in area estranea alla propria specializzazione.
Sono tutti elementi, questi, che non solo consentono, ma direi senz’altro impongono all’interprete di valutare con criteri specifici e puntuali le condotte sanitarie avvenute in questo contesto.
D’altronde, il principio di ragionevolezza – che affonda le radici nell’art. 3 Cost. e conserva ampio rilievo anche in funzione applicativa della legge – comporta quale corollario ineludibile il dovere di trattare in modo uguale situazioni uguali (rectius, simili tra loro), e di trattare in modo diverso situazioni diverse (id est, tra loro dissimili). Dunque, poiché la fase di emergenza non è uguale alla situazione ordinaria, va da sé che la responsabilità medica e sanitaria ai tempi del COVID-19 non può essere giudicata sulla base delle medesime coordinate ermeneutiche.
§ 2. Responsabilità medica e COVID-19: il ruolo dell’art. 2236 c.c. e quello della inesigibilità
Da più parti si è invocato il rilievo, reputato salvifico, dell’art. 2236 c.c. (rubricato “Responsabilità del prestatore d’opera“), a mente del quale:
“Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“.
L’opzione esegetica, pur animata dal commendevole intento di arginare gli addebiti di responsabilità sanitaria nel noto frangente, non convince appieno, almeno per un duplice ordine di ragioni:
- in primo luogo, perché la giurisprudenza ha sempre fatto di questa disposizione una applicazione decisamente restrittiva, vuoi riservandone la portata al solo profilo della perizia (ed escludendone dunque l’operatività in caso di negligenza e/o imprudenza), vuoi limitando la nozione di “speciale difficoltà” all’ipotesi di casi clinici straordinari ed eccezionali (giacché – come si sa – Medico “medio” non significa “mediocre”, bensì, al contrario, preparato e competente);
- in secondo luogo, perché la norma disciplina la responsabilità del singolo professionista, essendo quantomeno dubbia la possibilità di estenderne l’efficacia alla posizione della Struttura (esonerandola da responsabilità per l’inadempimento di quello che un tempo chiamavamo “contratto di spedalità”, oggi “contratto di assistenza sanitaria”).
In realtà, a prescindere dall’opportunità di un tale richiamo normativo, è principio generale quello secondo cui non esiste colpa ove si ritenga che l’agente non potesse tenere una condotta difforme da quella effettivamente adottata. Il concetto di inesigibilità, del resto, costituisce da sempre il limite di imputazione della responsabilità (civile o contrattuale, ma anche di quella penale), dal momento che ultra posse nemo obligatur (e in alcuni casi limite, potremmo dire, ad impossibilia nemo tenetur).
Pertanto, sotto questo profilo, si tratta di valutare se fosse esigibile – dall’Operatore o dalla Struttura Sanitaria – un contegno diverso da quello tenuto nel caso concreto, in termini di impegno professionale, di disponibilità delle risorse, di previsione dell’assetto organizzativo, alla luce dell’incontestabile eccezionalità dell’evento infettivo che il nostro S.S.N. si è trovato ad affrontare.
E allora, se questi sono i termini della questione, è verosimile ritenere che risulterà assai arduo il riconoscimento giudiziale di una ipotesi di colpa sanitaria per vicende cliniche connesse al nuovo coronavirus, perciò il problema della responsabilità di Medici e Ospedali coinvolti nella lotta all’epidemia è destinato ad autolimitarsi, e troverà probabilmente agevole (e opportuna) soluzione nella sua generalizzata esclusione, fatte salve eventuali ed episodiche fattispecie in cui si siano verificate macroscopiche violazioni delle leges artis.
In proposito, voci autorevoli della III sezione civile della Suprema Corte, pur senza azzardare ipotesi sui prevedibili scenari giurisprudenziali, hanno mostrato di ritenere che vi siano già, nell’interpretazione della legge Gelli consolidatasi con le cd. sentenze di San Martino bis, indicazioni idonee a calmierare la materia e salvaguardare la posizione del personale sanitario.
Ecco perché, da questo punto di vista, i maldestri tentativi che qualche isolato e improvvido legale ha effettuato al fine di “incoraggiare azioni giudiziarie nei confronti dei medici e dei professionisti sanitari impegnati in prima linea sul fronte dell’emergenza“, puntualmente stigmatizzati (anche) dal C.N.F., andrebbero perseguiti sul piano della violazione deontologica del dovere di competenza, piuttosto che dei doveri di corretta informazione e del divieto di accaparramento di clientela.
§ 3. Il problema della responsabilità professionale medica ai tempi del COVID-19 e le iniziative del legislatore in fase di emergenza
In questo contesto, si inseriscono gli afflati normativi – tentati o consumati – che il legislatore nazionale ha messo in campo per “supportare” Medici e Strutture.
Sotto il primo profilo, vengono in rilievo gli emendamenti che, da maggioranza ed opposizione, erano stati presentati in sede di conversione del d.l. “Cura Italia” n. 18 del 17 marzo 2020. Tutti sostanzialmente orientati ad introdurre – a vario titolo e con formulazioni più o meno (in)felici – riduzioni di e/o esenzioni da responsabilità, in sede penale e civile, non ne è rimasta traccia nella legge n. 27 del 24 aprile 2020 con cui il d.l. è stato convertito (poco male, invero, anche perché l’ottica prevalente sembrava quella di salvaguardare le Aziende – e le rispettive funzioni apicali – piuttosto che il personale sanitario).
Sotto il secondo profilo, è “degno” di menzione l’art. 117, comma 4, del d.l. “Rilancio” n. 34 del 19 maggio 2020, del seguente tenore letterale:
“Al fine di far fronte alle esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 nonché per assicurare al Servizio sanitario nazionale la liquidità necessaria allo svolgimento delle attività legate alla citata emergenza, compreso un tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale di cui all’articolo 19 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni agli enti del proprio Servizio sanitario regionale effettuati prima della data di entrata in vigore del presente provvedimento non producono effetti dalla suddetta data e non vincolano gli enti del Servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità dei predetti enti legate alla gestione dell’emergenza sanitaria e al pagamento dei debiti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo. Le disposizioni del presente comma si applicano fino al 31 dicembre 2020“.
La norma, dunque, aveva introdotto un inopinato, seppur temporaneo, blocco dei pignoramenti nei confronti di Aziende Sanitarie Locali, Aziende Ospedaliere (Universitarie e non), I.R.C.C.S., anche se trasformati in fondazioni, integrati con il S.S.N., i quali tutti non sarebbero tenuti a rispettare ordini ed ingiunzioni di pagamento, ancorché di fonte giudiziale.
Con l’art. 3, comma 8, del d.l. 31/12/2020, n. 183, tale divieto era stato prorogato al 31/12/2021. La proroga è stata, tuttavia, dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 236 del 07/12/2021, la quale ha ritenuto che la misura, pur costituzionalmente tollerabile ab origine, sia divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto della proroga di lungo corso, andando a ledere il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, il principio di parità tra le parti e quello di ragionevole durata del processo esecutivo. E’ definitivamente venuto meno, quindi, un divieto che poteva indirettamente incentivare i pazienti danneggiati da errori sanitari a rivolgersi, per il risarcimento del danno, a Medici ed Infermieri piuttosto che alle Aziende per le quali essi lavorano, in netto contrasto rispetto alla direzione condivisibilmente indicata dalla legge Gelli Bianco.
Da ultimo, pare che il Ministero della Salute sia impegnato nell’elaborazione di uno “scudo penale” per gli Operatori Sanitari e (forse) anche per i Dirigenti. Le tre possibili soluzioni in corso di valutazione consisterebbero:
- in una scriminante tout court per le azioni e le omissioni poste in essere nel corso dell’emergenza o in conseguenza di essa (sic!),
- nella limitazione della responsabilità penale al caso di dolo, con esclusione della colpa (finanche grave), oppure
- nella limitazione della responsabilità penale al caso di dolo e colpa grave, con esclusione della rilevanza della colpa lieve (in caso sia di negligenza, sia di imprudenza, sia di imperizia).
Difficile negare che le prime due soluzioni presentino aspetti poco compatibili col nostro ordinamento costituzionale. La terza potrebbe forse avere, invece, maggiori chances di successo (e di tenuta).
§ 3.1 AGGIORNAMENTO: lo “scudo penale” Covid è legge!
E’ doveroso un celere aggiornamento a seguito dell’entrata in vigore, e della successiva conversione in legge, del decreto legge 01/04/2021, n. 44. Va infatti tenuto presente che:
- l’art. 3 del cd. “Decreto Aprile“ ha escluso la responsabilità penale per effetti avversi conseguenti al vaccino anti-Covid: ai vaccinatori non potrà essere addebitata la morte o le lesioni eventualmente sofferte dal paziente, sempre che il vaccino sia stato inoculato conformemente al provvedimento di autorizzazione all’immissione del farmaco in commercio e alle relative istruzioni ministeriali (“scudo penale” per la somministrazione del vaccino);
- l’art. 3 bis del medesimo d.l. 44/2021, introdotto in sede di conversione in legge del decreto, ha previsto che “durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 […] i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave” (“scudo penale” per la colpa lieve dei sanitari).
Peraltro, il comma 2 del citato art. 3 bis d.l. 44/2021 ha inteso precisare i contorni della “colpa grave“, stabilendo che:
“Ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza“
Art. 3 bis, comma 2, decreto legge 01/04/2021, n. 44
Non è escluso che il legislatore possa approvare altresì uno “scudo civile” per limitare la responsabilità risarcitoria delle strutture (e degli operatori), anche al fine di scongiurare il rischio – da taluni ventilato – di una sorta di esplosione del contenzioso in subiecta materia. Sarà naturalmente nostra cura monitorare la questione e tenervi aggiornati in punto!
Hai bisogno di informazioni sui rapporti tra responsabilità medica e Covid-19?
§ 4. La soluzione indennitaria e il (sogno di un) sistema “no-fault compensation“
L’eccezionalità della situazione epidemiologica ha anche ispirato proposte volte all’introduzione un sistema indennitario per gli eventi avversi conseguenti al COVID-19, eventualmente modellato sulla falsariga della disciplina dettata dalla legge 210/1992 per le complicanze irreversibili da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni o somministrazione di emoderivati. Del resto, il concetto di complicanza, già acutamente sottoposto a revisione critica dalla giurisprudenza, evoca problematiche (concernenti la prevedibilità e l’evitabilità dei danni iatrogeni) conosciute e non dissimili da quelle già affrontate – per esempio – nella delicata materia delle infezioni ospedaliere (rectius: Infezioni Correlate all’Assistenza). Perciò può sembrare appetibile una soluzione che consenta di indennizzare i pazienti danneggiati nel corso dell’emergenza, piuttosto che risarcirli, prescindendo dunque dalla qualificazione in termini di illiceità della condotta generatrice di danno.
Ecco, la realizzazione di un sistema “no-fault compensation“ è sempre stato il sogno – più o meno proibito – di una parte degli interpreti, e l’emergenza sanitaria potrebbe costituire l’occasione per riportare la questione al centro del dibattito.
Com’è noto, “no-fault” significa “senza colpa”, il che non comporta però l’obliterazione di questo presupposto. Al contrario: per accedere all’indennizzo, la colpa deve essere evidente. Tuttavia, non c’è bisogno di individuare un colpevole per biasimarlo e, per l’appunto, “colpevolizzarlo”.
Il che, d’altronde, è in linea con la constatazione per cui gli errori medici sono molto spesso conseguenza di problematiche organizzative o strutturali, piuttosto che dell’errore dell’ultimo anello della catena (che è l’Operatore Sanitario), secondo la celebre teoria del “formaggio svizzero”.
Sennonché, la soluzione “no-fault compensation” presenta anche aspetti negativi, che non possiamo sottovalutare, e non è un caso che abbia trovato piena attuazione praticamente solo in Nuova Zelanda. Pragmaticamente, bisogna prendere atto della sostanziale irrealizzabilità, in Italia, di un sistema totalmente (ed esclusivamente) indennitario, in quanto:
- difficile da sostenere sotto il profilo economico;
- probabilmente inefficace, specie in un Paese come il nostro, in termini di deterrenza dal compimento di altri errori;
- incompatibile con l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che assicura a tutti i cittadini degli Stati contraenti il diritto ad un equo processo, rendendo lo schema “no-fault” necessariamente facoltativo (diversamente da quanto accade in Nuova Zelanda) e così svuotandolo di significato ed utilità.
L’ultima di questa ragioni sembra, in tutta onestà, davvero insuperabile, perciò il sistema indennitario difficilmente potrà rappresentare una soluzione praticabile in via generalizzata, senza considerare che è del tutto improbabile un così radicale ripensamento della materia a poco più di tre anni dall’entrata in vigore della legge 24/2017.
§ 5. Il mito della responsabilità penale del Medico ai tempi del COVID-19
Quanto al tema della responsabilità penale degli Operatori Sanitari, è fatto notorio che le ipotesi di condanna sono statisticamente rare e vengono riservate a casi veramente gravi e censurabili.
In proposito, è appena il caso di rammentare la novella di cui all’art. 590 sexies c.p., che ha introdotto una causa di non punibilità per le lesioni personali o la morte determinate da imperizia del Medico che abbia (scelto adeguatamente e) rispettato le raccomandazioni contemplate dalle linee guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali, purché non versi in colpa grave.
Ora, a prescindere dal noto pasticcio legislativo, per cui c’è stato un obiettivo peggioramento rispetto allo status quo ante (il d.l. Balduzzi n. 158/2012, infatti, scriminava anche la colpa lieve da negligenza e imprudenza), tutti sanno che la giurisprudenza penale è sempre stata piuttosto benevola nella considerazione delle vicende cliniche ad esito avverso. E ciò ha fatto intervenendo non solo e tanto sul profilo della colpa penale, che in linea teorica non diverge dalla relativa nozione civilistica, ma soprattutto su quello del nesso causale, che deve assurgere al cd. “elevato grado di credibilità razionale” (vale a dire alla sostanziale certezza, oltre ogni ragionevole dubbio), rispetto al ben più mite criterio della probabilità relativa (o “più probabile che non”), caro ai cultori del diritto civile.
In definitiva, dunque, anche a prescindere dallo “scudo penale” di cui si sta studiando l’approvazione, non sembra che la condanna penale possa rappresentare un seria preoccupazione per gli Operatori Sanitari che abbiano operato sul campo della lotta al COVID-19 (altra è la posizione, beninteso, degli organi apicali in relazione ad ipotetiche responsabilità di tipo organizzativo).
L’importante è che tutti siano consapevoli di questo stato delle cose, in primis Magistrati (quando si tratta di vergare il registro delle notizie di reato o formulare una imputazione) ed Avvocati (quando si tratta di consigliare un cliente o i suoi congiunti che vogliano presentare una denuncia per “malasanità”). Anche perché il processo penale – per dirla con Carnelutti – rappresenta di per sé una sanzione piuttosto afflittiva in termini personali ed economici, anche quando ha esiti assolutori.
§ 6. Le criticità del nostro S.S.N. evidenziate dal COVID-19: il punto di vista della Corte dei Conti
L’emergenza sanitaria è stata al centro anche del recente Rapporto 2020 della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica, secondo cui l’esperienza della pandemia ha reso ancor più evidenti alcune criticità ben note del nostro S.S.N. In estrema sintesi, l’Organo di controllo ha puntato il dito contro:
- la graduale riduzione della spesa pubblica per la sanità ed il contestuale aumento della spesa privata a carico dei cittadini;
- il rallentamento degli investimenti;
- la diminuzione del personale a tempo indeterminato, con aumento della stipulazione di contratti a tempo determinato o del ricorso a consulenze o rapporti flessibili;
- la grave carenza di personale infermieristico;
- la “fuga” dei Medici all’estero;
- la riduzione delle strutture ospedaliere di ricovero e la scarsa attenzione all’assistenza territoriale.
Con specifico riferimento alla inadeguatezza del sistema di assistenza sul territorio, la Corte dei Conti – con estrema severità – ha messo in luce che:
“L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto“.
In effetti, un più adeguato sistema territoriale di assistenza sanitaria avrebbe potuto, con grande probabilità, intercettare più tempestivamente i segnali epidemiologici, così contribuendo ad un migliore contenimento della diffusione della nuovo coronavirus. L’emergenza affrontata dal Paese, dunque, ha convinto ulteriormente della necessità di poter contare su un sistema sanitario in grado di rispondere a minacce sempre più insidiose, connesse ad un sistema economico aperto e globalizzato. E non è solo questione di “quantità” della spesa sanitaria pubblica (che resta comunque notevolmente inferiore a quella, per esempio, della Germania e della Francia), ma anche – e forse soprattutto – della sua “qualità“, in termini di destinazione delle risorse funzionale a garantire efficacia, efficienza nonché adeguati livelli essenziali di assistenza.
§ 7. Responsabilità medica e sanitaria: cosa possiamo imparare dall’esperienza COVID-19
Se c’è una lezione che possiamo apprendere dalla pandemia, è che esistono situazioni emergenziali che possono mettere a dura prova il Servizio Sanitario Nazionale e, di conseguenza, creare gravi disfunzioni nella tutela dei diritti del malato.
Lasciamo naturalmente a chi di dovere ogni valutazione (e, auspicabilmente, anche qualche decisione concreta) sulle necessarie azioni di “rafforzamento delle reti sanitarie del territorio“, “dei servizi di prevenzione“, di “integrazione tra politiche sanitarie e politiche sociali“, di “valorizzazione delle politiche per il personale sanitario“, e finanche di “potenziamento della Sanità Militare“, come indicato nel documento introduttivo dei recenti ccdd. “Stati Generali dell’Economia“.
Dobbiamo però ricordare, perché è la Corte Costituzionale che ce lo ha insegnato negli ultimi decenni, che la tutela del bene “salute” incontra sì il limite derivante dalla effettiva disponibilità delle risorse (organizzative e finanziarie) necessarie per la sua attuazione, ma che esiste un “contenuto minimo” di prestazioni sanitarie che devono comunque essere assicurate ai cittadini, vale a dire una soglia incomprimibile ed invalicabile al di sotto della quale non si può scendere, pena la violazione della nostra Costituzione.
Non è privo di rilievo, del resto, il fatto che tale nozione sia stata esplicitamente inserita, con la riforma del 2001, nello stesso testo costituzionale, all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., secondo cui i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali […] devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale“.
Perciò il legislatore, che pur gode di discrezionalità in materia, è chiamato a compiere una delicata opera di bilanciamento della salute con altri interessi giuridicamente tutelati, osservando una ragionevole gradualità nella distribuzione delle risorse a disposizione e rispettando un nucleo indefettibile di garanzie per i soggetti interessati.
Queste constatazioni, come da lungo tempo andiamo sostenendo, non possono non riverberarsi sugli assetti della responsabilità sanitaria. E’ chiaro, infatti, che il contenimento dei costi sollecitato dall’aziendalizzazione delle Strutture (non solo di quelle private) non può andare a detrimento dei diritti del paziente, al quale devono comunque essere assicurati adeguati standards assistenziali.
Come ha evidenziato anche recentemente la Corte di Cassazione, il “rischio di impresa” deve essere sopportato nella sua interezza da chi l’impresa esercita, senza possibilità di riversarlo – sic et simpliciter – sulle spalle degli utenti, ma nemmeno a danno del personale sanitario di cui l’Azienda Ospedaliera si avvalga nell’esercizio della propria attività, secondo il noto principio cuius commoda eius et incommoda.
Ecco perché, allora, resta assolutamente confermata l’opportunità della scelta – fatta dal legislatore nel 2017 – di incentivare l’azione risarcitoria dei pazienti nei confronti della Struttura Sanitaria, scoraggiando quella verso il Medico. Se un passo avanti in questa direzione poteva (e invero può ancora) essere fatto, è quello di limitare ulteriormente “a monte” il coinvolgimento del Medico nel processo, introducendo una vera e propria improponibilità dell’azione civile nei suoi diretti confronti.
Non si tratterebbe di un intervento normativo complicato: basterebbe muoversi sulla falsariga non tanto della disciplina – sufficientemente controversa – sulla responsabilità magistrati (di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117), quanto piuttosto di quella sulla responsabilità degli insegnanti (di cui alla legge 11 luglio 1980, n. 312), i quali, com’è noto, non possono essere direttamente convenuti nelle azioni di risarcimento danni da culpa in vigilando, dovendo tali azioni essere proposte verso l’Amministrazione responsabile (nella specie: il Ministero dell’Istruzione), salvo rivalsa nei soli casi di dolo o colpa grave (come peraltro già prevede l’art. 9 della legge Gelli per gli Operatori Sanitari).