Ultimo Aggiornamento 8 Gennaio 2025
Il nesso di causalità rappresenta un elemento centrale nella determinazione della responsabilità medico-sanitaria, poiché consente di stabilire se e in quale misura una condotta sanitaria abbia contribuito al verificarsi di un danno al paziente.
Questo concetto, pur apparentemente semplice, assume connotati complessi in ambito giuridico, richiedendo un’analisi rigorosa e una valutazione differenziata tra il diritto civile e penale.
Attraverso questo approfondimento, esamineremo le regole probatorie applicabili, le principali pronunce giurisprudenziali e il ruolo delle concause, offrendo una guida chiara e completa per comprendere le implicazioni del nesso eziologico nella responsabilità medica.
INDICE SOMMARIO
- § 1. Il nesso causale nella responsabilità medica: la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”
- § 2. Dalla probabilità statistica alla probabilità logica: inammissibilità della regola del 51% per l’accertamento del nesso causale
- § 3. La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica nella responsabilità medico-sanitaria
- § 4. La prova del nesso causale nella responsabilità medica
- § 5. Il nesso causale: un giudizio, non un fatto, e le implicazioni probatorie
- § 6. Riflessioni conclusive: esiste una definizione giuridica di “causalità”?
§ 1. Il nesso causale nella responsabilità medica: la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”
L’accertamento del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso segue criteri distinti a seconda che si tratti di una responsabilità civile o penale. Questa distinzione deriva non solo dalla differenza dei presupposti giuridici, ma anche dalle diverse finalità che caratterizzano le due discipline.
In ambito civile, il giudizio causale si basa sulla regola della preponderanza dell’evidenza, comunemente definita come del “più probabile che non”. Questo principio, ben chiarito dalla giurisprudenza, stabilisce che per attribuire la responsabilità non è necessaria una certezza assoluta, ma è sufficiente dimostrare che è più probabile che la condotta del sanitario abbia causato il danno piuttosto che il contrario. Tale impostazione è stata autorevolmente ribadita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 581 dell’11 gennaio 2008, che ha sancito un importante principio:
Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria: nel primo vige la prova ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, mentre nel secondo si applica la regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’, stante la diversità dei valori in gioco tra accusa e difesa nel penale e la parità di posizioni nel civile.
Questo standard di certezza probabilistica, applicabile alla responsabilità civile, non si limita alla mera analisi quantitativa delle probabilità statistiche (la cosiddetta probabilità quantitativa o pascaliana). Piuttosto, richiede un approccio deduttivo basato sugli elementi disponibili nel caso concreto, secondo la probabilità logica o baconiana. In altre parole, la valutazione deve tener conto degli elementi di conferma che supportano l’ipotesi di causalità e, contemporaneamente, escludere spiegazioni alternative.
Questo approccio, largamente condiviso anche in ambito europeo, è stato confermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha accettato il ricorso a logiche probabilistiche per stabilire la causalità, come evidenziato in sentenze rilevanti in materia di tutela della concorrenza (es. CGCE, 13 luglio 2006, n. 295; CGCE, 15 febbraio 2005, n. 12).
La giurisprudenza, dunque, sottolinea l’importanza di un criterio logico e sistematico per l’accertamento del nesso causale, che valorizzi non solo i dati statistici, ma anche gli elementi indiziari e deduttivi propri del caso concreto.
§ 2. Dalla probabilità statistica alla probabilità logica: inammissibilità della regola del 51% per l’accertamento del nesso causale
Nel contesto della responsabilità civile, il criterio della preponderanza dell’evidenza non può essere ridotto alla cosiddetta “regola del 50% più uno” (espressione utilizzata dalla Cassazione, Sezione III, sentenza n. 15991/2011). Tale approccio, basato su una mera probabilità statistica, sarebbe infatti inadeguato a garantire un giudizio corretto e rigoroso sul nesso causale.
Il principio cardine è che la probabilità non deve essere interpretata in senso esclusivamente statistico, ma in senso logico: una causa statisticamente improbabile può essere ritenuta determinante se, nel caso concreto, tutte le altre cause alternative risultano ancora meno probabili e non emergono ulteriori spiegazioni plausibili. Questo criterio, noto come probabilità logica, consente di valorizzare la specificità del caso concreto, andando oltre la mera quantificazione numerica delle probabilità.
La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III, n. 15991 del 21 luglio 2011, ha ribadito con forza questo approccio, sottolineando che:
La disomogeneità tra il torto civile e il reato penale richiede l’adozione di un diverso criterio di analisi della causalità materiale, quello della probabilità relativa o del ‘più probabile che non’. Questo criterio impone un’analisi specifica e puntuale delle risultanze probatorie uniche e irripetibili del singolo processo. […] Il giudice deve valutare l’evidenza complessiva del caso concreto, evitando di applicare automaticamente la regola statistica o scientifica, ma procedendo a una comparazione prudente e razionale delle diverse concause.
§ 2.1 Più probabile che non: qualche esempio pratico
Un esempio pratico chiarisce il concetto: in caso di danni derivanti da trasfusioni di sangue infetto, se le possibili concause sono numerose e ognuna ha un’incidenza statistica del 3%, mentre la trasfusione ha una probabilità del 40%, il giudice non può rigettare la domanda risarcitoria basandosi solo su questa percentuale. Piuttosto, deve valutare la probabilità complessiva delle diverse evidenze probatorie e trarre la soluzione più corretta e plausibile in base al caso concreto.
Altro esempio concreto che illustra chiaramente questo approccio: se il crollo di un immobile può essere ascritto a sette cause alternative, una delle quali ha una probabilità del 40% e le altre del 10%, la causa con il 40% deve essere considerata determinante, pur non raggiungendo la soglia del 50% (questo esempio è fatto dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 4024/2018).
Questa metodologia riflette l’importanza di un accertamento causale che sia logico e fondato sull’analisi concreta delle prove, superando l’apparente incertezza che accompagna il giudizio sul nesso causale. La complessità del tema è ben rappresentata dalla celebre espressione di Virgilio citata nella sentenza n. 15991/2011: “Felix qui potuit rerum cognoscere causas” (Fortunato colui che ha potuto conoscere le cause delle cose).
Dunque, sintetizzando:
- Il nesso di causalità non richiede una certezza assoluta. È sufficiente dimostrare che l’evento dannoso è stato una conseguenza ragionevolmente probabile della condotta sanitaria.
- La probabilità logica prevale su quella statistica. Le circostanze del caso concreto devono guidare l’analisi, non regole astratte o numeriche.
- Anche una causa improbabile può essere determinante. Se tutte le altre alternative sono ancora meno probabili, quella con la maggiore incidenza diventa la causa rilevante.
§ 3. La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica nella responsabilità medico-sanitaria
Nel contesto della responsabilità medico-sanitaria, è fondamentale distinguere tra causalità materiale e causalità giuridica.
- La causalità materiale riguarda la connessione oggettiva tra una condotta e l’evento dannoso, ossia l’analisi di come un’azione o un’omissione abbia direttamente causato un determinato risultato.
- La causalità giuridica, invece, si riferisce all’attribuzione di effetti giuridici a una determinata condotta, basandosi su criteri normativi e valoriali. In ambito contrattuale, ciò implica valutare se un comportamento costituisca un inadempimento e quali conseguenze giuridiche ne derivino.
Questa distinzione è centrale, poiché mentre la causalità materiale si concentra sul legame fattuale tra azione ed evento, la causalità giuridica implica un giudizio normativo sull’imputabilità delle conseguenze dannose che derivano da quell’evento.
Una corretta comprensione di entrambe le forme di causalità è essenziale per determinare la responsabilità e l’entità del risarcimento in casi di malpractice medica, specialmente quando concorrono fattori naturali preesistenti nel paziente.
La giurisprudenza ha affrontato approfonditamente questo tema, evidenziando l’importanza di valutare sia la connessione causale oggettiva sia l’imputazione giuridica della responsabilità.
Ad esempio, la Corte di Cassazione, ancora nella sentenza n. 15991 del 21 luglio 2011, ha analizzato la concomitanza tra condotta medica colpevole e fattori naturali preesistenti, sottolineando la necessità di distinguere tra causalità materiale e giuridica per una corretta attribuzione della responsabilità e una equa quantificazione del danno risarcibile.
§ 4. La prova del nesso causale nella responsabilità medica
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, in modo ormai pacifico, ha ribadito con chiarezza il principio secondo cui l’onere della prova del nesso eziologico incombe su chi agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno da responsabilità medica.
Tale principio si fonda sull’applicazione della regola del “più probabile che non”, consolidata in ambito civile, che richiede al paziente di dimostrare che l’evento dannoso – come il decesso o una grave invalidità – sia riconducibile, con ragionevole probabilità, alla condotta negligente o imperita del sanitario.
In questo contesto, va altresì precisato un aspetto fondamentale: una volta dimostrato il nesso causale, il danno derivante dalla condotta sanitaria non può essere considerato come una perdita di chance, ma deve essere risarcito nella sua totalità. In altre parole, se il legame tra l’errore del medico e l’evento dannoso è accertato, il risarcimento deve essere commisurato all’intero danno effettivamente subito dal paziente o dai suoi familiari (cfr. Cass. civ. sez. III, n. 25466/2024).
Questo include:
- Danno da morte: risarcimento legato al decesso del paziente.
- Danno da riduzione della durata della vita: compensazione per la vita accorciata a causa della condotta sanitaria.
- Danno da perdita della qualità della vita o invalidità permanente: liquidazione per il peggioramento dello stato di salute o la compromissione duratura della capacità di condurre una vita normale.
Questa impostazione rafforza il principio secondo cui la perdita di chance non può sostituirsi al danno principale quando è accertato il nesso causale diretto tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso. Il risarcimento, dunque, deve coprire l’intero danno, determinato attraverso una valutazione rigorosa e completa delle conseguenze subite dalla vittima.
§ 5. Il nesso causale: un giudizio, non un fatto, e le implicazioni probatorie
È dunque un principio consolidato che, mentre la colpa medica può essere presunta, il nesso causale deve essere provato dal paziente che sostiene di aver subito un danno. Tuttavia, il nesso di causalità non è un fatto concreto, ma una relazione tra fatti che si traduce in un giudizio umano.
Questa distinzione, sebbene evidente, è spesso sottovalutata. I fatti possono essere provati; i giudizi, invece, non sono oggettivamente accertabili, ma dipendono da un processo di valutazione logica e deduttiva.
Proprio per questa ragione, la questione dell’onere della prova del nesso causale è più complessa di quanto comunemente si creda e richiede un’attenzione maggiore rispetto a quella riservata in molti casi dai giudici di merito, che spesso delegano l’intera questione al consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.).
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 4024 del 20 febbraio 2018, ha affrontato magistralmente il tema, chiarendo che il nesso di causalità è una relazione stabilita a posteriori tra due fatti e non una categoria oggettivamente accertabile. La Suprema Corte ha infatti affermato:
Il nesso di causa non è un fatto materiale, ma un giudizio. La causalità è una relazione stabilita dall’uomo a posteriori tra due fatti, non una categoria a priori oggettivamente accertabile. Pertanto, l’espressione ‘prova del nesso causale’ costituisce una metonimia: non si può provare il nesso di causa in sé, ma i fatti materiali su cui fondare il ragionamento deduttivo.
In altre parole, ciò che può essere provato sono i fatti materiali che servono come base per il ragionamento inferenziale volto a stabilire o escludere il nesso causale. Tali fatti possono essere dimostrati con qualsiasi mezzo di prova ammesso dall’ordinamento – documenti, testimonianze, confessioni, presunzioni semplici – poiché la legge non pone limiti a riguardo.
La sentenza sottolinea anche che la discussione sull’esistenza del nesso causale non verte sulla prova diretta del nesso stesso, ma sulla logicità del ragionamento utilizzato per accertarlo. Questo approccio, già presente in precedenti giurisprudenziali (es. Cass. n. 178/1972 e Cass. n. 21255/2013), evidenzia l’importanza di una metodologia rigorosa e trasparente nell’accertamento del nesso eziologico.
Il giudizio sul nesso causale, dunque, non può essere ridotto a un esercizio semplificato, ma richiede un’analisi attenta e complessa, fondata su elementi probatori solidi e un ragionamento logico coerente.
§ 6. Riflessioni conclusive: esiste una definizione giuridica di “causalità”?
Il tema del nesso causale nella responsabilità medica e sanitaria, con tutte le sue sfumature tra probabilità logica e analisi concreta dei fatti, può sembrare astratto e complesso, talvolta persino ostico. Ma è proprio in questa complessità che si trovano le risposte giuste per garantire un equilibrio tra giustizia e responsabilità.
Del resto, prima di qualsiasi altra cosa dovremmo domandarci: il nesso di causalità è un costrutto del diritto o lo troviamo altrove? In altre parole, esiste una “causalità” per il diritto, definita espressamente nelle leggi, o il diritto deve recepire questa nozione da altre discipline, come la filosofia, la storia, o la medicina legale?
Secondo alcuni, il fondamento normativo della causalità sarebbe rinvenibile nell’articolo 40 del codice penale. Esaminiamolo:
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.”
[Art. 40, comma 1, c.p. – “Rapporto di causalità”]
Questa norma offre davvero una definizione di causalità? La risposta è no. L’articolo 40 c.p. non spiega cosa sia la causalità, ma si limita a presupporla: stabilisce che un evento può essere imputato a un’azione o omissione solo se è da questa causato, senza però definire il concetto di “causa”. In sostanza, la norma presuppone la nozione di cuasalità, non ci dice che cosa è!
§ 6.1 Il nesso di causalità esiste forse in natura?
Prendiamo quindi atto che una definizione normativa del nesso di causalità non c’è. Questo ci porta a un’altra domanda: i giuristi devono creare la nozione di causalità o recepirla da altre scienze? E, ancora prima, esiste davvero una causalità “oggettiva” in natura?
Il dibattito su cosa sia la causalità è antico e irrisolto. Da secoli si discute se la causalità sia un dato oggettivo della realtà o una costruzione intellettuale. L’uomo osserva un fulmine seguito dall’incendio di un albero: è il fulmine a causare l’incendio, o è l’osservatore a stabilire questo nesso di causa?
Gli antichi tendevano a considerare la causalità come un fenomeno oggettivo: i fatti naturali erano ritenuti legati da rapporti di causa-effetto indipendenti dall’osservazione umana. Tuttavia, vi erano eccezioni, come il filosofo Nicola d’Autrecourt (XIII secolo), che sosteneva che i nessi causali fossero solo il frutto dell’osservazione umana. Questa visione fu messa in discussione a tal punto che il filosofo dovette abiurare per evitare accuse di eresia.
Oggi prevale una concezione più soggettiva: la causalità è spesso considerata una costruzione dell’intelletto umano, frutto di interpretazioni e valutazioni probabilistiche basate sull’esperienza.
§ 6.2 Qual è la funzione della causalità nel diritto?
Il dibattito filosofico sulla causalità può affascinare, ma è davvero rilevante per il giurista? In realtà, no. Nel diritto, la causalità non serve a spiegare i nessi tra gli eventi nel mondo naturale, ma a rispondere a una domanda precisa: “Chi è responsabile?”.
La causalità giuridica ha una funzione pratica: stabilire se un evento dannoso può essere attribuito a una specifica azione o omissione e, di conseguenza, determinare le responsabilità e le conseguenze giuridiche. Non si tratta, quindi, di una speculazione sull’esistenza di leggi universali di causa-effetto, ma di un criterio operativo per l’attribuzione della responsabilità.
Questo sposta il focus: non ci interessa se la causalità è oggettiva o soggettiva; ciò che conta è stabilire un metodo per valutare il legame causa-effetto ai fini della responsabilità dal punto di vista giuridico.
Per chi si occupa di questi temi ogni giorno, come noi, affrontare queste sfide significa muoversi tra diritto, logica e interpretazione. In fondo, il diritto non è altro che lo strumento con cui tentiamo di dare un ordine razionale alle complessità della realtà… anche quando si tratta di stabilire un nesso di causalità!