Ultimo Aggiornamento 21 Maggio 2024
Contemplato dall’art. 54 c.p. e dall’art. 2045 c.c., lo stato di necessità è una causa di esclusione dell’antigiuridicità della condotta sanitaria
[1] Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
[2] Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo.
Art. 54 codice penale (“Stato di necessità“)
[1] Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui misura é rimessa all’equo apprezzamento del giudice.
Art. 2045 codice civile (“Stato di necessità“)
Caso tratto da T. Trieste, 11 marzo 2009
Una signora, che da anni soffre di gravi difficoltà deambulatorie dovute a un precedente ictus e gode di una autonomia limitata sia sotto il profilo fisico sia in ordine alla capacità di autodeterminarsi perché affetta da “meningoencefalite infantile”, viene portata in pronto soccorso dalla figlia.
Accolta con “codice giallo”, emerge ben presto la necessità di effettuare una “pancolonscopia in sedazione profonda per subocclusione intestinale in paziente con colite ulcerosa, già operata per megacolon tossico”.
Le condizioni della paziente, nel frattempo ricoverata, non le consentono di ricevere alcuna informazione né di prestare alcun valido consenso all’intervento, che lo stesso medico richiedente prospetta però come “relativamente urgente”, ossia “da farsi entro i prossimi giorni”.
Il personale medico, allora, si rifiuta di eseguire l’esame diagnostico, non ritenendo possibile procedere senza autorizzazione della diretta interessata ed in assenza di un provvedimento formale di attribuzione alla figlia – che pur sollecitava l’intervento – della tutela, curatela o amministrazione di sostegno.
La figlia si rivolge, dunque, al Tribunale di Trieste per ottenere la propria nomina ad amministratrice di sostegno della madre, con l’autorizzazione a dare il consenso all’intervento.
Le osservazioni fatte dal Tribunale con riguardo allo “stato di necessità” di cui agli artt. 54 c.p. e 2045 c.c.
Il Tribunale osserva in proposito che:
- soltanto quando non sussiste uno stato di necessità, il sanitario può richiedere o far richiedere dai familiari la nomina di un legale rappresentante della persona incapace al fine di esprimere un consenso (o un dissenso) informato alle cure, esami diagnostici, interventi chirurgici;
- lo stato di necessità, contemplato dall’art. 54 c.p. e dall’art. 2045 c.c. come causa di esclusione dell’antigiuridicità della condotta, sussiste quando l’agente si trovi di fronte alla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona;
- esso dunque consente di giustificare l’operato del sanitario pur in mancanza di un consenso del paziente e sempre che quest’ultimo non abbia manifestato o non sia altrimenti conoscibile un suo espresso dissenso (valido e cosciente) all’intervento;
- deve pertanto ritenersi indubbio, secondo gli enunciati princìpi giuridici, che lo stato di necessità, a prescindere dal consenso del paziente, giustifichi l’operato del sanitario, anzi lo imponga;
- nel caso di specie si ravvisano i presupposti per effettuare in condizioni di necessità e urgenza l’esame richiesto, poiché il danno alla persona eventualmente derivante dalla mancata tempestiva prestazione sanitaria può essere fonte diretta della responsabilità del medico (gastroenterologo o anestesista o altro operatore sanitario) che abbia rifiutato di operare in mancanza del consenso informato della persona o del suo legale rappresentante, quando il rinvio della prestazione possa essere di per sé causa di un ritardo nella formulazione di una corretta diagnosi se non addirittura di un aggravamento delle condizioni cliniche del paziente medesimo;
- nell’àmbito sanitario lo stato di necessità ben può prospettarsi – sotto il profilo temporale – ogniqualvolta sia correlato alla valutazione attuale della necessità di eseguire determinati esami diagnostici o interventi, utili e imprescindibili per il paziente, secondo i migliori princìpi della lex artis;
- questa valutazione consente di ritenere coperti dallo stato di necessità trattamenti che, seppure non caratterizzati da una assoluta emergenza clinica, tali sono destinati a diventare nel breve o brevissimo periodo, nel senso che se non eseguiti secondo un codice d’urgenza o media urgenza essi sono destinati a diventare urgenti e improcrastinabili nell’immediato futuro del paziente;
- lo stato di necessità, così considerato, prescinde allora dalla natura astrattamente elettiva e programmabile di un intervento e impone piuttosto, al sanitario, di valutare se, in relazione alle circostanze del caso concreto e alle attuali condizioni cliniche del paziente, l’intervento stesso si riveli come sostanzialmente indifferibile;
- lo stato di necessità allora – si ripete – permette di superare la mancanza del consenso informato del paziente, e impone al medico di eseguire sul paziente e per il paziente, incapace di esprimere il proprio consenso, ogni trattamento sanitario utile e necessario, in modo tempestivo e adeguato, secondo la migliore scienza ed esperienza medica. La richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno inoltrata al solo fine di poter rappresentare la signora nella prestazione di un consenso informato all’esame di pancolonscopia in sedazione profonda da eseguirsi con urgenza è stata, pertanto, rigettata dal Tribunale di Trieste, non essendo stata reputata necessaria siffatta nomina perché l’intervento richiesto venisse eseguito.
Emergenza-urgenza & stato di necessità: serve aiuto?
Cosa possiamo imparare in tema di tutela della salute e stato di necessità?
Sembra opportuno dare adeguato risalto ai seguenti tre aspetti problematici, che emergono dalla decisione in rassegna.
- Il titolare del bene “salute” è soltanto il paziente: in linea generale, ad eccezione del caso di minori o soggetti (legalmente) incapaci, il consenso informato deve provenire dal diretto interessato; le manifestazioni di volontà esternate da parenti o amici, che pur nella prassi sovente si usa raccogliere, sono del tutto irrilevanti sotto il profilo giuridico (salvo che si tratti del diverso problema – si pensi alle significative questioni attinenti al cd. “testamento biologico” e, in genere, ai trattamenti di fine vita – di ricostruire una volontà presunta del paziente che si trovi nell’impossibilità di esprimerla).
- Nella teoria generale del diritto, lo stato di necessità opera come “esimente” o “causa di giustificazione”: ciò significa, in estrema sintesi, che un comportamento astrattamente qualificabile come illecito, laddove sia posto in essere per la necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non comporta alcuna responsabilità (civile, penale o amministrativa) a carico dell’autore. Con specifico riferimento all’attività sanitaria, lo stato di necessità svolge un ruolo ancor più incisivo, perché vale a rimuovere il “limite” del consenso, ripristinando la doverosità istituzionale dell’intervento medico ed imponendo, in sostanza, un obbligo di attivarsi per salvaguardare la salute del paziente.
- La pratica clinica consente di distinguere tra “urgenza” ed “emergenza” in relazione alla prevedibilità di eventi sfavorevoli connessi alla dilazione cronologica del trattamento diagnostico o terapeutico.
Esistono, così, fattispecie di “urgenza” vera e propria o “urgenza differibile” (in cui la prestazione può essere posticipata, secondo la valutazione clinica del caso specifico, senza rischio di imminente aggravamento della condizione morbosa), contrapposte a fattispecie di “emergenza” vera e propria o “urgenza indifferibile” (in cui il rinvio dell’intervento è gravato da una probabilità prossima alla certezza di esito sfavorevole della patologia). E la statistica conferma che i casi di “emergenza” vera e propria rappresentano una esigua minoranza rispetto a quelli – ben più frequenti – di “urgenza” vera e propria.
Nondimeno, sarebbe riduttivo limitare l’applicazione dello stato di necessità ai soli casi di effettiva emergenza, escludendone invece l’urgenza, atteso che la scriminante in parola è idonea ad operare in tutte le ipotesi nelle quali – come nel caso affrontato dal giudice triestino – il rinvio della prestazione possa essere di per sé causa di un ritardo nella formulazione di una corretta diagnosi, col probabile rischio, secondo le leges artis, di un aggravamento delle condizioni cliniche del paziente (in ciò concretandosi quel “pericolo attuale di un danno grave alla persona” che è richiesto dalle norme).
Ciò non significa, beninteso, che lo stato di necessità sia da considerare come una sorta di passepartout per eludere l’obbligatorietà dell’informazione e del consenso, giacché comunque va invocato soltanto quando sia impossibile ottenere un valido consenso informato dal paziente.
Il dovere del medico di attivarsi in caso di stato di necessità ex articolo 54 codice penale e articolo 2045 codice civile
Tuttavia, il medico dell’emergenza-urgenza, che spesso può trovarsi a intervenire su un paziente in stato di coscienza compromessa, può ragionevolmente reputare preminente il proprio dovere di attivarsi – in conformità allo stesso art. 36 del codice deontologico – per assicurare l’assistenza indispensabile ad affrontare le condizioni di urgenza.
E, nel fare ciò, deve essere ulteriormente confortato da un duplice ordine di riflessioni:
- la giurisprudenza reputa che la necessità del consenso del paziente alle cure sanitarie venga meno sia in presenza di uno stato di necessità effettivo, sia in presenza di uno stato di necessità presunto o putativo, il quale ricorre allorché il medico, senza colpa, abbia ritenuto in base ad un ragionevole convincimento – ancorché poi rivelatosi fallace – l’esistenza di un pericolo di danno grave alla salute del paziente (cfr. Cass. III, 15 novembre 1999, n. 12621, relativa ad annessiectomia praticata su una paziente in anestesia per il fondato sospetto, poi dimostrato erroneo, di una gravidanza extrauterina);
- ove il medico effettui un intervento operatorio in assenza del consenso del paziente o modifichi in itinere l’intervento, ovverosia sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso sia derivato un miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative apprezzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo delle lesioni personali quanto sotto quello della violenza privata (cfr. Cass. pen. SU, 18 dicembre 2008, n. 2437).
Vi invitiamo anche ad una più ampia riflessione leggendo l’articolo “Consenso informato in emergenza-urgenza“