Ultimo Aggiornamento 22 Agosto 2024
La legge ai tempi del Coronavirus
E’ di qualche giorno fa l’intervista rilasciata al quotidiano “Il Dubbio” da Sabino Cassese, a proposito della decretazione d’urgenza adottata dal Governo e dal Presidente del Consiglio dei Ministri per affrontare la pandemia da COVID-19 (la malattia provocata dall’ormai famigerato nuovo Coronavirus). Il prof. Cassese è un noto e stimato giurista, giudice emerito della Corte Costituzionale; ha insegnato diritto pubblico e diritto amministrativo in prestigiosi Atenei, in Italia e all’estero, ha scritto libri e manuali giuridici, diretto collane e riviste, svolto importanti ruoli anche governativi.
In questa intervista, il costituzionalista formula osservazioni estremamente critiche non solo sulla tecnica di redazione degli atti normativi emanati per fronteggiare l’emergenza, ma finanche sulla loro legittimità nel nostro contesto ordinamentale.
Riepiloghiamo in questo approfondimento le principali perplessità sollevate dal prof. Cassese e le possibili conseguenze che deriverebbero da una accertata illegittimità dei vari Decreti Legge e D.P.C.M. che si sono succeduti sino ad oggi.
INDICE SOMMARIO
§ 1. L’illegittimità del primo Decreto Legge
Muovendo dalla premessa che una pandemia è cosa diversa da un evento bellico, è anzitutto fuori luogo richiamare l’art. 78 Cost. (secondo cui “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari“). Pertanto, è chiaro che l’attività normativa debba essere esercitata nei limiti delle previsioni del nostro ordinamento costituzionale.
Ecco, sotto questo profilo, ad avviso del prof. Cassese:
“Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza“.
Il riferimento è al decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 (“Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19“), che viene considerato illegittimo per una pluralità di ragioni (dalla mancata fissazione di un termine di efficacia, all’elencazione meramente esemplificativa delle misure di gestione dell’emergenza adottabili dal Presidente del Consiglio dei Ministri, fino alla omessa disciplina dei relativi poteri).
In effetti, il d.l. 6/2020 è stato quasi interamente abrogato dal successivo decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 (“Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19“). Tuttavia, i provvedimenti medio tempore emanati (tra cui almeno 4 D.P.C.M.) in base al decreto originario, se questo fosse da considerare effettivamente viziato, sarebbero afflitti da invalidità derivata, al pari di tutte le sanzioni applicate in esecuzione degli stessi!
In ogni caso, poi, il costituzionalista sottolinea la pessima qualità dei provvedimenti via via licenziati: malformulati, contraddittori e ingombri di rinvii ad altre norme, tanto da rendere le disposizioni assai poco decifrabili. E’ vero che i testi sono stati predisposti in una fase di particolare concitazione, ma – ricorda il prof. Cassese – “A palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo”.
§ 2. L’invalidità dei provvedimenti regionali per violazione degli artt. 16 e 117 Cost.
Altro aspetto degno di nota è il fatto che, a parere del prof. Cassese, le Regioni si siano arrogate una potestà normativa e regolamentare non consentita, perché contrastante con quanto previsto dalla nostra Carta Costituzionale. Qui il riferimento è all’art. 117 Cost, che – al comma 2, lettera q – prevede espressamente:
“Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
[…]
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
[…]“
La previsione della Costituzione sembra, infatti, piuttosto chiara: la prevenzione di fenomeni infettivi aventi rilievo sovranazionale (di cui l’attuale pandemia da Coronavirus configura caso archetipico) compete esclusivamente all’autorità centrale. Perciò non si giustifica il diversificato approccio con cui alcune Regioni hanno introdotto disposizioni derogatorie rispetto alle fonti statuali, talvolta aggravando le limitazioni – già alquanto intense – alla libertà di circolazione dei cittadini.
Ci vuole una legge dello Stato – aveva già sottolineato Cassese in altra occasione – per costringere i cittadini a restare sostanzialmente chiusi in casa per così tanto tempo, perché non si può fare discriminazione tra cittadini di una Regione e di un’altra e solo il Governo centrale può garantire l’uniformità di decisione necessaria anche ai sensi dell’art. 16 Cost., (“Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza“).
§ 3. L’eccessivo ricorso allo strumento del “D.P.C.M.”
La competenza dello Stato in questa materia è, d’altronde, ribadita anche dall’art. 6 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale“), secondo cui:
“Sono di competenza dello Stato le funzioni amministrative concernenti […] la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie […]“.
A questo proposito, il costituzionalista ritiene che vi sia stato un abuso dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (nell’acronimo oggi unanimemente riconosciuto: “D.P.C.M.”), mentre si sarebbe dovuto ricorrere:
- da una parte, almeno per le disposizioni più importanti, allo strumento del D.P.R. (Decreti del Presidente della Repubblica);
- dall’altra parte, per le questioni strettamente correlate al contenimento del contagio infettivo, a provvedimenti del Ministro della Salute.
§ 4. Riflessioni conclusive e possibili conseguenze sulla legittimità delle sanzioni applicate per le violazioni
Ora, non spetta naturalmente a noi prendere posizione su una materia tanto delicata, qual è la legittimità dei provvedimenti normativi ed amministrativi che sono stati, a vario titolo, emanati dalle Autorità centrali e da quelle periferiche per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Certo è che, considerata l’autorevolezza della fonte che ne ha messo in discussione la validità, vale la pena di interrogarsi sulle conseguenze che deriverebbero dalla fondatezza di questa tesi.
Bene, è noto che sino al 25 marzo 2020 la violazione dei divieti di circolazione poteva configurare fattispecie di rilevanza penale:
- quella contravvenzionale prevista dall’art. 650 c.p. (“Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità“), che punisce “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità” con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro,
- salvo vedersi contestare il più grave reato, sempre contravvenzionale, di cui all’ancora vigente art. 260 del R.D. 27 luglio del 1934, n. 1265 (“Testo Unico delle Leggi Sanitarie“), che per inciso è norma speciale e quindi dovrebbe prevalere sulla precedente,
- se non anche il grave delitto di epidemia colposa (452 c.p.),
- o addirittura quello – punito con l’ergastolo! – di epidemia dolosa (art. 438 c.p.), magari con dolo eventuale.
In realtà, dal 26 marzo 2020 (data di entrata in vigore del d.l. 19/2020), il legislatore ha mutato avviso ed il mancato rispetto delle misure di contenimento, “salvo che il fatto costituisca reato“, è stato depenalizzato, divenendo violazione amministrativa punita con una sanzione da 400 a 3.000 euro, con espressa dispensa dall’applicazione delle “sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità” (così l’art. 4 d.l. 19/2020).
Ad ogni modo, il giudizio di disvalore sulla condotta vietata e la conseguente sanzione (prima penale, ora amministrativa) si fondano sulla validità delle disposizioni che hanno imposto i limiti alla circolazione delle persone. Qualora, come sostiene il prof. Cassese, dette disposizioni dovessero essere effettivamente ritenute non conformi alla Costituzione, ne resterebbero travolti tutti i procedimenti irrogativi delle sanzioni. Ciò, naturalmente, a condizione che l’illegittimità della norma punitiva sia statuita dalla Corte Costituzionale, adita in via incidentale dal Giudice davanti al quale venisse contestato un verbale di accertamento della violazione amministrativa (con l’opposizione alla ordinanza-ingiunzione emanata dal Prefetto).
Non resta che attendere, pertanto, la valutazione della Consulta circa la legittimità delle recenti prassi di questo “diritto costituzionale dell’emergenza“.