Consenso Informato in Emergenza-Urgenza

Ultimo Aggiornamento 16 Ottobre 2024

Il consenso informato in emergenza-urgenza tra stato di necessità e rifiuto delle cure

Relazione tenuta dall’Avv. Gabriele Chiarini al Primo Convegno Regionale sul Sistema Emergenza-Urgenza Sanitaria (Catanzaro, 25 e 26 settembre 2009)

Alcune considerazioni preliminari

Molto si è detto e scritto sul consenso informato, tanto che può apparire quasi scontata l’affermazione secondo cui il consenso rappresenta l’imprescindibile presupposto della legittimità di ogni atto medico.
È a tutti noto, invero, che il consenso informato del paziente – in linea col principio personalistico che informa il nostro ordinamento, viepiù valorizzato dalla riforma sanitaria del 1978 ad oggicostituisce in molti casi il discrimine tra liceità ed illiceità nell’attività medica.

La nostra Costituzione riconosce il diritto e la libertà, per ciascun individuo, di autodeterminarsi in materia di salute (artt. 2, 13 e 32 cost.).
La regola nel rapporto medico-paziente deve dunque essere la consensualità, mentre i trattamenti sanitari obbligatori sono l’eccezione, come solennemente recita l’art. 5 della Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina, conclusa a Oviedo il 4 Aprile 1997, ratificata in Italia con la legge n. 145 del 28 marzo 2001: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”.

Ma che cosa è questo consenso informato in emergenza-urgenza?

L’etimologia del termine – consenso deriva da cum-sentire: pensare insieme – suggerisce una “comunione di intenti”, ovverosia l’essere concordi sul modo di vedere una determinata questione (clinica, nel caso della prestazione sanitaria).
Il consenso rappresenta, quindi, la condivisione, da parte del paziente, della scelta terapeutica che il medico gli prospetta. Il che, naturalmente, può avvenire soltanto all’esito del processo conoscitivo che è alla base della “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, giacché non si può consentire a ciò che non si conosce.

Sotto questo profilo, è estremamente chiaro il codice di deontologia medica, che dedica il capo quarto del titolo terzo per l’appunto a: “Informazione e consenso”.
È interessante riportare letteralmente alcuni significativi stralci della disciplina in discorso. In particolare:

  • Art. 33 (Informazione al cittadino) Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. […]”
  • Art. 35 (Acquisizione del consenso) Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33. […] In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. […]”
  • Art. 36 (Assistenza d’urgenza) Allorché sussistano condizioni di urgenza, tenendo conto delle volontà della persona se espresse, il medico deve attivarsi per assicurare l’assistenza indispensabile.”

Queste disposizioni contengono, a ben vedere, il nucleo fondamentale dei princìpi anche giuridici che governano la materia in esame. Esse rappresentano, pertanto, un utile parametro di riferimento al quale l’operatore sanitario potrà rivolgersi nella pratica quotidiana, al fine di attingere precise indicazioni comportamentali.

Due sono i profili tematici che si è deciso di approfondire in questa sede, per la rilevanza anche statistica delle fattispecie concrete ad essi relative: lo stato di necessità da una parte, il rifiuto delle cure dall’altra parte.
Essi rappresentano due differenti prospettive attraverso le quali è possibile riguardare il consenso informato e trarne interessanti spunti di riflessione.
Si tenterà di farlo prendendo le mosse dall’analisi di altrettanti recenti e suggestivi casi pratici tratti dai repertori giurisprudenziali.

Approfondimento: due casi concreti

Riflessioni conclusive. Quale informazione e quale consenso in emergenza-urgenza

L’eterogeneità delle circostanze in cui si svolge l’attività dell’emergenza-urgenza, la sostanziale indifferibilità di buona parte delle prestazioni mediche ivi erogate, la conseguente concitazione in cui taluni interventi sono effettuati, il sovraffollamento oggettivamente riscontrabile nella pratica sanitaria quotidiana, sono circostanze che impongono una applicazione ponderata dei princìpi generali in tema di consenso informato.

Quale informazione deve fornire il medico dell’emergenza-urgenza e quale consenso deve pretendere?

Innanzitutto, deve senz’altro distinguersi l’ipotesi in cui il paziente sia cosciente ed in grado di esprimere liberamente la propria volontà di fronte alle proposte diagnostico-terapeutiche, da quella in cui il paziente sia in stato di incoscienza.

1) Paziente cosciente

Ebbene, con riferimento alla prima ipotesi (paziente cosciente), si osserva che:

Senz’altro, il primo contenuto dell’informazione al paziente deve concernere il grado di severità della patologia riscontrata, il che, in realtà, in parte avviene con l’attribuzione dei “codici” di accettazione in pronto soccorso, seppur si tratti dell’attribuzione ad ogni paziente non tanto di un grado di “urgenza”, quanto piuttosto di un grado di “priorità”.

È necessario, ad ogni modo, che tale adempimento non resti un mero automatismo interno, ma si traduca, compatibilmente con le esigenze e le eventuali priorità dell’attività di pronto soccorso, in una comunicazione personale corredata di dati specifici inerenti il singolo assistito, dalla quale questi possa ricavare tutte le informazioni che rientrino nelle possibilità conoscitive del personale preposto all’accettazione, quali:

  • la natura dell’evento morboso;
  • il prevedibile tempo di attesa;
  • la tipologia delle prestazioni ipotizzate e delle alternative praticabili;

Ciò consente al paziente di maturare consapevolmente una decisione in merito al consenso o al dissenso alle prestazioni terapeutiche e, prima ancora, alle pratiche diagnostiche rivolte al corretto inquadramento del caso clinico. Il consenso così ottenuto legittima, così, tutte le pratiche diagnostico-terapeutiche direttamente rivolte alla correzione della manifestazione patologica acuta, e ad essa proporzionate, secondo un iter clinico suffragato non soltanto dalla personale esperienza del medico, ma altresì dall’adozione di linee guida scientificamente valide, sempre e comunque nel pieno rispetto del diritto del paziente – che potrebbe revocare il consenso – a conoscere eventuali nuove informazioni apprese nel corso delle operazioni.

Laddove si ravvisi l’opportunità di ricorrere a prestazioni che, seppur coerenti con l’esigenza clinica, siano gravate da un non trascurabile rischio di eventi sfavorevoli, ovvero di adottare misure terapeutiche vòlte alla prevenzione di patologie potenzialmente associate alla manifestazione principale (e.g.: sieroprofilassi antitetanica in caso di ferita cutanea), deve essere richiesto – e documentato – un consenso espresso e specifico, previa informazione sui rischi connessi al trattamento e sulle alternative adottabili.

Il rifiuto esplicito degli accertamenti o delle cure, proveniente da persona capace ed esaustivamente informata circa le reali conseguenze di tale manifestazione di volontà, deve essere rispettato dal sanitario, non senza aver tentato una vigorosa “strategia della persuasione”, e comunque cercando di ricorrere a procedure terapeutiche alternative anche solo potenzialmente efficaci ed accettate dal paziente.

2) Paziente incosciente

Con riferimento, invece, alla seconda ipotesi (paziente incosciente), si osserva che:

In linea di massima, dovrà essere ritenuto sussistente lo stato di necessità di cui agli artt. 54 c.p. e 2045 c.c., per il pericolo attuale di un danno grave alla persona assistita, sì che tutte le idonee pratiche diagnostico-terapeutiche potranno (anzi, dovranno) essere intraprese prescindendo dal consenso, non solo e tanto perché operi una sorta di “presunzione del consenso” (intesa come prevalenza della volontà di sopravvivere del paziente, che lo stesso avrebbe manifestato, qualora capace, di fronte al pericolo di un danno irreparabile), quanto piuttosto per la accennata “riespansione” dell’obbligatorietà istituzionale dell’intervento medico.

Dunque, ad esempio, in presenza di un’anemizzazione severa e suscettibile di imminente evoluzione infausta (rimettendo evidentemente al medico siffatta valutazione clinica), sarà senz’altro doveroso procedere ad una trasfusione ematica, anche in assenza di esplicito consenso. Resta, tuttavia, aperta la problematica relativa alla dignità giuridica da attribuire alle cd. “direttive anticipate”, ovverosia alle disposizioni con le quali la persona manifesta – per l’ipotesi in cui si trovi nell’impossibilità di esprimere la propria volontà – un anticipato dissenso a talune prestazioni che reputi contrarie ai suoi princìpi etici o religiosi

Ora, nell’attesa di un intervento legislativo chiarificatore che molti reclamano, sul punto si contendono il campo due orientamenti:

  1. da una parte, quello che riconosce un ruolo importante, se non addirittura decisivo, a queste espressioni di volontà (ferme, tuttavia, le notevoli incertezze in merito alla prova delle stesse), sulla base dell’indubbio rilievo che le fonti normative e deontologiche attribuiscono al rifiuto di cure;
  2. dall’altra parte, quello secondo il quale tali dichiarazioni preventive, per poter assurgere a forma di valida espressione di volontà, mancherebbero di un requisito fondamentale, derivante dalla discrasia tra epoca della sottoscrizione ed epoca della reale necessità terapeutica. In altri termini, si tratterebbe di una forma di dissenso non attuale e, quindi, invalida.

Questa ambiguità esegetica comporta grande insicurezza per l’operatore sanitario, poiché lo espone al rischio di una ipotesi di responsabilità (ergo di un contenzioso giudiziale), sia che decida di intervenire contro le direttive anticipate del paziente sia che decida di soprassedere nel rispetto delle stesse, lasciandolo sostanzialmente in balia della valutazione contingente di chi sarà chiamato a giudicarlo.
La problematica da ultimo segnalata evoca, invero, temi di più ampia portata, che attengono al fondamentale principio della certezza del diritto e non possono essere trattati in questa sede.
Nondimeno, appare chiaro che la corretta individuazione delle regole comportamentali in materia di consenso informato è questione troppo complessa e delicata per poter esser lasciata alla discrezionalità interpretativa del singolo medico, che sovente si trova ad affrontare una responsabilità di fatto superiore a quella connessa alla sua specifica attività professionale. Il che assume particolare rilievo nel settore dell’emergenza-urgenza, laddove la tempestività decisionale si rivela fondamentale nel curare ciò che non può essere assolutamente rinviabile e nello stabilire un ordine di priorità, diagnostico e prognostico, necessario ad inviare i pazienti nei reparti idonei, e laddove una formalistica applicazione delle norme rischia di creare significative difficoltà operative, pregiudicando la dinamica gestionale del sistema ed arrecando, di conseguenza, gravi pregiudizi al cittadino-paziente.

Nell’attesa, quindi, dell’auspicato intervento legislativo, al fine di stemperare il disorientamento degli operatori, senz’altro utile potrebbe rivelarsi l’effettuazione di una analisi ragionata delle problematiche più frequenti e spinose, preferibilmente all’esito di un processo di consultazione e di condivisione delle scelte, per riuscire a:

  • predisporre una modulistica correttamente formulata per documentare sia il rilascio del consenso sia il puntuale adempimento degli obblighi informativi, con particolare attenzione alla documentazione del rifiuto di cure (fermo restando che l’assenza del modulo firmato non importa automaticamente la responsabilità quando – come è per regola generale – non sia previsto esplicitamente l’obbligo di raccogliere consenso scritto [e.g.: P.M.A., farmaci off label], così come, per converso, l’avvenuta compilazione non vale ad escludere ipso facto la possibilità di un deficit di informazione o di consenso);
  • elaborare e monitorare con costanza protocolli operativi di riferimento – anche in materia di consenso informato – che debbono contenere solidi parametri decisionali ai quali il sanitario possa attenersi soprattutto in quei settori dove, come detto, l’imprescindibile tempestività della prestazione concede poco spazio a dilemmi interpretativi.

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