Coma post-anossico e risarcimento una storia di malasanità(1)

Coma post-anossico e risarcimento: una storia di malasanità

Ultimo Aggiornamento 3 Ottobre 2024

La vicenda raccontata dal figlio della paziente: il risarcimento del danno non cancella la perdita di un affetto così grande

Per questo caso di malpractice, una donna di 66 anni, morta dopo tre mesi passati in coma post-anossico irreversibile, il risarcimento per danno non patrimoniale è stato pari a 630mila euro, al netto delle spese e degli oneri accessori (qui l’atto di quietanza).
Il caso è stato seguito dall’Avvocato Gabriele Chiarini e ve lo raccontiamo non tanto per l’entità del risarcimento, ma perché è uno di quei casi che continuiamo a far fatica a comprendere.

I casi di malasanità di solito sono causati da errori dovuti a imperizia, negligenza, noncuranza, superficialità. Si può individuare una colpa specifica, un errore unico che scatena l’evento, oppure può succedere per una serie di eventi che, presi singolarmente, non causano danni seri, ma insieme possono essere determinanti nel peggiorare la salute del paziente o della paziente.
Quest’ultimo caso è simile a quello che stiamo per affrontare e che è difficile da raccontare.
Un grave errore, rivelatosi fatale, commesso alla fine di tanti piccoli errori succedutisi in sequenza. Tutti prevenibili. Tutti assolutamente evitabili. Se solo i professionisti sanitari imparassero a comunicare meglio tra di loro e con i pazienti.

Vogliamo provare a ripercorrere le tappe principali della vicenda attraverso gli occhi di chi ha amato questa donna, e la ama ancora. Ciò che è successo è agli atti, ma quello che hanno provato i congiunti, come il marito e i figli, non lo sa nessuno: crediamo che questa testimonianza possa avere una valenza nel racconto di questa storia ed essere di esempio e di aiuto per chi sta affrontando una situazione simile.
Perché il risarcimento, per quanto importante, non mette fine alla sofferenza, non aggiusta le cose, non rende davvero giustizia, non mette indietro le lancette dell’orologio.


INDICE SOMMARIO


§ 1. I fatti: dall’edema di Reinke al coma post-anossico

Clelia (nome di fantasia) è una donna di 66 anni, di origini siciliane. I figli si sono trasferiti in una città del nord Italia per studiare e lavorare e Clelia, appena entrata in pensione, li ha raggiunti. Una donna serena, sempre disponibile con tutti, devota alla famiglia. Ma anche molto esigente. I figli la ricordano come “il Comandante” di casa.

Nel 2018, Clelia finisce in pronto soccorso per dispnea e insufficienza respiratoria: le diagnosticano l’edema di Reinke (un’infiammazione delle corde vocali che causa raucedine, laringite e nei casi più gravi, difficoltà respiratorie) associato a BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva): quest’ultima diagnosi in realtà, come rileverà il medico legale, non è corretta.

Le propongono di operarsi, ma come vedremo non lo fanno in modo adeguato, non forniscono chiare indicazioni sull’utilità dell’intervento.

Clelia quindi non si opera. E le sue condizioni, comprensibilmente, si aggravano. Nel 2019 ritorna in ospedale e questa volta le praticano una tracheostomia: una procedura che permette di continuare a respirare quando le vie aeree superiori sono bloccate od ostruite. Per realizzarla, si effettua uno stoma (un’apertura) sul collo, dove si inserisce una cannula fissa che aderisce ai lembi della pelle.

Nel corso dei mesi successivi, Clelia viene visitata periodicamente, fino a quando, a inizio luglio, a causa di un’ostruzione della cannula tracheale, la donna va in arresto cardiorespiratorio e viene ricoverata in ospedale. Viene dimessa una settimana dopo e le programmano la sostituzione della cannula tracheale al successivo controllo, che sarebbe dovuto avvenire pochi giorni dopo.

La pneumologa, nella lettera di dimissioni, chiarisce che, vista la difficoltà della paziente a respirare in modo autonomo, la rimozione della cannula si deve posticipare, per il momento ci si deve limitare a sostituirla.

L’improvvida estubazione ed il coma post-anossico

Il successivo controllo è l’inizio della fine.

L’otorinolaringoiatra (ORL) che la visita, infatti, anziché limitarsi a sostituire la cannula come da precedenti indicazioni, la rimuove. Rispedisce a casa la paziente, senza referto e senza altre indicazioni da seguire.

Tornata a casa, dopo poche ore, Clelia va in arresto cardiaco e si accascia al suolo. Arriva in ospedale in coma post-anossico irreversibile, con necessità di ventilazione invasiva continua attraverso la tracheostomia, senza alcuna risposta agli stimoli esterni. A novembre del 2020, Clelia perde la sua battaglia.

§ 2. Il punto di vista della famiglia

Carlo (nome di fantasia) è il figlio maggiore di Clelia. È stato vicino alla madre fin dal principio e prova a raccontare la storia attraverso il suo punto di vista. È lucido, presente, razionale. La rabbia di quei giorni sembra aver ceduto il passo a una tragica consapevolezza: “Tutti commettiamo errori – racconta – io ne commetto ogni giorno. Certo, un conto è sbagliare una pratica amministrativa, altro conto è un errore medico che può causare la morte di una persona. Però sono cose che succedono”.

Sono cose imprevedibili quando accadono nonostante le buone pratiche seguite. Altrimenti sono cose che non dovrebbero succedere.

Nel 2018, quando ha iniziato ad andare in ospedale per l’edema, ero sempre presente. Mia madre era preoccupata da quella diagnosi, ma allo stesso tempo era anche attenta a seguire in modo scrupoloso le indicazioni dei medici”.

Ad oggi non è ancora chiaro perché Clelia si sia rifiutata di fare l’intervento proposto la prima volta dai medici: “A noi in realtà non risulta che le sia stata fatta questa proposta – rimarca Carlo – hanno scritto che “non era orientata” ma non esiste un documento ufficiale che abbia raccolto espressamente il diniego di mia madre a fare l’operazione. È stato più un discorso tra di loro, nulla di ufficiale. Mia madre non me ne ha mai parlato”.

In realtà un intervento è stato fatto, ma dalle carte non emerge in modo chiaro: “A mia madre è stata fatta un’operazione in otorinolaringoiatria per sfrangiare le corde vocali ed asportare l’edema – riprende il figlio – ma di questo intervento, nei documenti ufficiali, manca la parte che riguarda proprio l’asportazione dell’edema”.

La tracheostomia e la rimozione della cannula

Quando arriva la tracheostomia il mondo intorno a Clelia crolla: “Prese molto male questo intervento – riprende il figlio – non riusciva a farsi ascoltare, non poteva urlare (noi siamo una famiglia di urlatori!). In quel momento ho riconosciuto la sua fragilità, in modo amplificato. È in quel momento che mia madre ha cominciato a credere di essere malata”.

A luglio del 2019, le cose, come abbiamo visto, precipitano: per un problema di otturazione della cannula, e per colpa di una comunicazione che da qualche parte non ha funzionato, una semplice sostituzione della cannula si è trasformata in una rimozione. Risultata poi fatale per Clelia.

Ricordo ancora quel pomeriggio in cui mia madre è tornata a casa dopo che le avevano rimosso la cannula. Non sapeva cosa poteva o non poteva fare: bere, mangiare, tossire? Ha chiesto alla mia fidanzata, che è medico di famiglia. Poteva fare tutto, anche tossire. Ma la cosa strana era che il medico che le aveva tolto la cannula, non le aveva dato queste informazioni. Non aveva con sé nemmeno il referto dell’avvenuta rimozione della cannula. Più tardi mio padre mi chiama: “Mamma si è sentita male”. Vado a casa, la trovo per terra, supina. Era già in coma quando sono arrivato”.

Il supporto dell’avvocato

Carlo capisce che qualcosa non è andato come dovrebbe, che qualcuno ha commesso un errore, ma non è un medico, non può sapere in quel momento cosa ha causato tutto questo.

Decide allora di rivolgersi subito a uno studio legale, contattando l’avvocato Chiarini: “Abbiamo cercato di evitare rapporti diretti con il personale sanitario. Non eravamo lucidi, avremmo potuto dire cose di cui poi ci saremmo pentiti. Era giusto affidare tutto a un professionista che potesse seguire le cose con la giusta professionalità e il necessario distacco”.

Carlo, nel reparto di terapia intensiva in cui era ricoverata sua madre, rivede poi il medico che ha tolto la cannula, un dialogo quasi inesistente. Nessuna discussione.

Gli errori si fanno. Non ce l’ho con i medici – sottolinea il figlio di Clelia – ma quel giorno ho capito che qualcosa non quadrava e la cosa che mi ha dato da pensare erano i pareri contrastanti: se un medico dice di non rimuovere la cannula, perché un altro dovrebbe invece farlo? Credo ci sia stato un grande problema di comunicazione. Con un sistema informativo digitalizzato e integrato, forse il medico che ha rimosso la cannula avrebbe potuto vedere subito che non era il caso di farlo, forse l’informazione non è arrivata nel modo giusto. O forse, e spero non sia così, avrà voluto dimostrare di saperne più lui della collega che aveva sconsigliato la rimozione”.

Carlo oggi guarda avanti, ha ripreso in mano la sua vita. Ma l’assenza della madre pesa: un vuoto incolmabile che una vicenda del genere non aiuta certo a rimarginare.

In quei giorni mio padre invocava l’aiuto del Cielo. Io ho preferito chiedere aiuto a un avvocato – conclude Carlo – per capire quali diritti avessimo e come potevamo farli valere: mi è stato utile, perché mi ha consentito di comprendere quando avevamo ragione, di chiedere spiegazioni se qualcosa non era chiaro, di farcene una ragione quando invece le nostre erano solo fantasie. Ci vuole un professionista lucido in questi casi che ti sappia dire cosa puoi o non puoi pretendere”.

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§ 3. Il punto di vista del medico legale

Questo paragrafo potremmo liquidarlo con la prima fase della perizia del medico legale allegata al ricorso:

Letta la storia clinica, la questione potrebbe essere affrontata e risolta in una riga, indicando come gravemente imprudente ed assolutamente contrario al buon senso clinico, prima ancora che a linee guida e buona prassi medica, la procedura di decannulazione ed invio a domicilio della paziente (…). Da cui, il successivo arresto respiratorio, essendosi trattato di arresto cardiorespiratorio prolungato e quindi il gravissimo ed irreversibile danno cerebrale e la condizione di coma post-anossico vegetativo”.

Ma, come ha fatto il medico legale, anche noi proseguiamo nella narrazione dei fatti e nell’analisi critica della vicenda clinica, fondamentale per la ricostruzione causale degli avvenimenti.

La confusione diagnostica

Secondo la perizia, fin dal primo ricovero vi erano tutte le condizioni per giungere ad una corretta definizione diagnostica, ma non sono stati fatti gli accertamenti necessari: la diagnosi di edema di Reinke non era del tutto corretta, o quantomeno non era sufficiente, non essendo stata diagnosticata la problematica principale (una stenosi delle vie aeree superiori, probabilmente coesistente con una Sindrome delle Apnee Ostruttive Notturne, OSAS nell’acronimo in lingua inglese), ed essendosi perseverato, in aperta contraddizione con le evidenze cliniche, con la diagnosi di BPCO (BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva).

Il mero consiglio dei medici (“si consiglia intervento chirurgico dell’edema di Reinke in microlaringoscopia diretta“) era appunto un mero suggerimento, perché non seguito da alcuna annotazione e diniego ufficiale da parte della paziente a sottoporvisi. Per il medico legale, il contesto in cui l’intervento fu proposto è quindi da stigmatizzare.

Ci sarebbe anche da chiedersi – continua la perizia – quale corretta informazione avrebbe potuto fornire quello specialista ORL, alla luce dello sviante convincimento di avere a che fare con una paziente in follow up pneumologico per BPCO”.

Pertanto, se ci fosse stata una diagnosi corretta e un’altrettanto corretta informazione e raccolta di consenso sull’intervento, questo avrebbe potuto svolgersi già nel 2018, evitando tutto quello che è successo dopo.

Nelle visite successive, la pneumologa aveva infatti negato la presenza di BPCO, smentendo di fatto la diagnosi di dimissione della prima visita.

L’evidente confusione diagnostica, associata a un carente flusso intercomunicativo, è stata poi confermata all’inizio del 2019, quando la paziente è stata ricoverata in medicina d’urgenza di nuovo per “una riacutizzazione di BPCO”, e questo nonostante la totale assenza di qualsiasi evidenza clinica ed anche strumentale di questa patologia. La tracheostomia, che fu eseguita in urgenza, fu tra l’altro realizzata in circostanze “alquanto concitate, risultando particolarmente indaginosa e certamente ad insulto cruentale non indifferente, visti i primi due tentativi infruttuosi e solo il terzo andato a buon fine, peraltro solo dopo intervento di altro medico”.

Nella lettera di dimissioni la pneumologa chiarisce: “Si è tentato di valutare con i colleghi della pneumologia un percorso per portare alla rimozione della cannula, che ha evidenziato obiettivamente la presenza di tirage e quindi di possibile persistente flogosi alle prime vie respiratorie che necessitano di rivalutazioni ORL in follow up”.

La grave imprudenza nella “decannulazione”

Clelia non avrebbe quindi dovuto essere decannulata. Perché quindi il medico abbia invece deciso di togliere la cannula, non è ancora chiaro. Forse non ha letto la lettera di dimissioni? E se l’ha letta, perché ha agito così? Non lo sappiamo.

Il resto della storia è noto, ma vi riproponiamo comunque alcuni passaggi della relazione:

Quella estubazione fu un atto che si ha difficoltà a definire medico, data la sua gravità. Se volessimo rifarci alla perizia che deve essere nel bagaglio di un qualsiasi medico ed a maggior ragione di uno specialista ORL, dovremmo invocare una imperizia grossolana nella sua gravità. Quanto alle dovute norme di prudenza e diligenza, stenteremmo a rintracciarne i benché minimi riscontri”.

Non solo. La rimozione della cannula, nel caso di Clelia, che era tracheostomizzata di lungo termine, avrebbe dovuto svolgersi in modo graduale, con cannule di misura inferiore e altri accorgimenti utili per lo “svezzamento”. Nulla di tutto questo è stato fatto: la cannula è stata rimossa del tutto, in pochi minuti.

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§ 4. La liquidazione del danno da coma post-anossico

La ricostruzione causale del danno biologico (e del decesso) identifica come causa iniziale la decannulazione, che ha portato poi nelle ore successive a: insufficienza respiratoria, arresto cardiorespiratorio, prolungata ipossia cerebrale, con grave danno cerebrale irreversibile, coma post-anossico vegetativo. E infine, morte.

La paziente è deceduta dopo alcuni mesi dall’episodio acuto, all’esito di un sofferto periodo di allettamento in condizioni di coma post anossico vegetativo, con obiettività neurologica invariata: “apertura spontanea degli occhi senza fissare un obiettivo, nessuna riposta agli stimoli, flaccidità ai quattro arti“. L’exitus è stato eziologicamente ricondotto alle conseguenze del danno cerebrale, mediate da una serie di gravi complicanze respiratorie ed infettive via via insorte, dovute all’allettamento ed alla presenza di cateteri.

Si può soltanto immaginare cosa abbiano provato in questo contesto i familiari che, da una parte, hanno vissuto indirettamente gli effetti del drammatico evento e, dall’altra, hanno dovuto far fronte a indecorosi rimpalli di responsabilità relativamente alla struttura che dovrebbe dovuto farsi carico dell’assistenza di Clelia. Struttura a cui la donna non è mai arrivata, perché è morta prima che si potesse organizzare il trasferimento.

La vertenza è stata definita in sede di accertamento tecnico preventivo con un accordo transattivo che ha previsto il versamento alla famiglia di un risarcimento pari a 630mila euro, al netto della rifusione delle spese e degli oneri accessori (qui puoi scaricare l’atto di quietanza). Il danno è stato parametrato, dietro indicazione conciliativa dei consulenti tecnici d’ufficio, su un periodo di circa tre mesi di inabilità temporanea assoluta, associata a sofferenza di grado elevato (quanto al periodo di ricovero dopo l’evento infausto presso la struttura di lungodegenza); nonché sul danno parentale per la morte del congiunto a vantaggio del marito e dei due figli della donna deceduta, quantificato secondo le tabelle di Milano 2021 (che, all’epoca della CTU, non avevano ancora perso il proprio primato rispetto all’analogo strumento tabellare adottato dal Tribunale di Roma).

Per scaricare l’atto di quietanza e liquidazione