Art. 2236 c.c.

Art. 2236 c.c. e responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie

L‘art. 2236 del codice civile riveste un ruolo di grande rilievo nel sistema della responsabilità civile, con particolare riguardo all’ambito delle professioni intellettuali. La disposizione, rubricata “Responsabilità del prestatore d’opera“, introduce infatti una limitazione di responsabilità per il professionista che si trovi a fronteggiare problemi tecnici di speciale difficoltà nello svolgimento della sua attività.

Nello specifico, l’art. 2236 c.c. stabilisce che “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“. Si tratta di una previsione di notevole interesse applicativo, che ha dato luogo a un vivace dibattito interpretativo in dottrina e giurisprudenza.

Un settore in cui l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. assume particolare rilevanza è quello della responsabilità dell’ente ospedaliero. Ci si interroga, in particolare, sulla possibilità di invocare la limitazione di responsabilità prevista dalla norma nei confronti non solo del singolo medico, ma anche della struttura ospedaliera presso cui egli opera.

La questione non è di poco conto, considerando che la responsabilità dell’ente ospedaliero presenta caratteri peculiari rispetto a quella del medico dipendente. Infatti, mentre la responsabilità del medico ha natura tendenzialmente extracontrattuale, la prima si fonda sul contratto di spedalità che si instaura tra paziente e struttura, fonte di autonomi obblighi per quest’ultima.

Scopo del presente approfondimento è proprio indagare l’ambito di applicazione dell’art. 2236 c.c. con specifico riferimento alla responsabilità dell’ente ospedaliero, evidenziandone i presupposti, le implicazioni e i limiti alla luce degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali.

Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.

– Dispositivo dell’art. 2236 del Codice Civile – Responsabilità del prestatore d’opera

L’art 2236 c.c. nel sistema della responsabilità professionale

L’art. 2236 c.c. rappresenta una disposizione peculiare nel panorama codicistico, volta a contemperare due opposte esigenze: da un lato, non mortificare l’iniziativa del prestatore d’opera col timore di ingiustificate responsabilità in caso di insuccesso; dall’altro, non indulgere verso decisioni non ponderate o riprovevoli inerzie del medesimo.

Ratio dell’articolo 2236

Il testo della norma dispone che: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“.

La ratio della previsione è quella di limitare la responsabilità del professionista, evitando che il timore di incorrere in responsabilità per colpa lieve possa indurlo ad astenersi dall’accettare incarichi particolarmente impegnativi o a non osare soluzioni innovative. Al contempo, mantenendo ferma la responsabilità per dolo e colpa grave, la norma evita di assecondare superficialità e leggerezze.

Applicabilità del 2236 alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

Sebbene inserito nell’ambito della disciplina del contratto d’opera, si ritiene che l’art. 2236 c.c. sia espressione di un principio generale, applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale del professionista.

Infatti, i parametri valutativi della condotta del professionista, legati al suo status e al tipo di attività esercitata, rimangono sostanzialmente i medesimi sia che egli agisca in esecuzione di un contratto, sia che operi al di fuori di esso.

Coordinamento con art. 1176 c.c.

L’art. 2236 c.c. si pone come norma di coordinamento rispetto al generale principio di diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c. Quest’ultimo, infatti, richiede al debitore di usare la diligenza del “buon padre di famiglia” (comma 1) e, trattandosi di attività professionale, la diligenza richiesta deve parametrarsi alla natura dell’attività esercitata (comma 2).

In questa prospettiva, l’art. 2236 c.c. specifica e integra il precetto dell’art. 1176 c.c., consentendo di modulare il grado di diligenza esigibile dal professionista in relazione alla speciale difficoltà dell’incarico, ferma restando la sua responsabilità per i casi di dolo e colpa grave.

La norma mira così ad adattare il criterio generale di responsabilità alle peculiarità dell’attività professionale, in considerazione della complessità delle questioni che il prestatore d’opera può trovarsi ad affrontare.

La responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero

La responsabilità dell’ente ospedaliero per i danni subiti dal paziente ha natura contrattuale, discendendo dal “contratto di spedalità” che si conclude con l’accettazione del paziente nella struttura.

Il contratto di spedalità e gli obblighi dell’ente

Il contratto di spedalità ha ad oggetto una prestazione complessa, che non si esaurisce nella mera attività medica, ma comprende una serie di obblighi accessori di protezione e sicurezza. Tali obblighi investono:

  • l’adeguatezza dell’organizzazione e del personale;
  • la messa a disposizione di attrezzature efficienti;
  • l’apprestamento di misure idonee a prevenire infezioni;
  • la predisposizione di un ambiente sicuro per il paziente.

Si tratta di doveri autonomi rispetto alla prestazione medica in senso stretto, attinenti all’efficiente gestione della struttura nel suo complesso.

Il fondamento normativo della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria

L’art. 7 della legge Gelli-Bianco ha espressamente sancito la natura contrattuale della responsabilità delle strutture sanitarie, pubbliche e private, per i danni cagionati dal personale sanitario, a qualunque titolo operante presso le stesse. Alla responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero si applica, quindi, il regime previsto dall’art. 1218 c.c. in tema di inadempimento delle obbligazioni. Ne deriva che l’ente, per andare esente da responsabilità, deve provare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Non è dunque sufficiente, per la struttura sanitaria, la prova di avere adottato la diligenza dovuta, richiedendosi la dimostrazione di un impedimento oggettivo e assoluto, non superabile con l’ordinaria diligenza.

Responsabilità per fatto dei dipendenti ex art. 1228 c.c.

La responsabilità dell’ente ospedaliero abbraccia anche i danni cagionati dai medici che operano al suo interno. In questo caso, viene in rilievo l’art. 1228 c.c., che sancisce la responsabilità del debitore per il fatto degli ausiliari di cui si avvale nell’adempimento.

Il medico dipendente, infatti, assume la veste di “ausiliario” dell’ente nell’esecuzione della prestazione sanitaria. Di conseguenza, la struttura risponde dei danni causati dal medico a titolo contrattuale, senza poter invocare il più favorevole regime aquiliano.

Caratteri e disciplina della responsabilità contrattuale dell’ente

La responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero presenta caratteri peculiari rispetto a quella del singolo medico. Essa ha infatti natura autonoma, prescindendo dall’accertamento di una condotta colposa del professionista, e risponde a criteri di imputazione e a un regime probatorio differenti rispetto a quelli operanti in ambito aquiliano.

Sul piano probatorio, in particolare, mentre nella responsabilità extracontrattuale grava sul danneggiato l’onere di dimostrare la colpa, in quella contrattuale è l’ente a dover provare l’assenza di colpa e, più precisamente, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile.

Nella responsabilità contrattuale dell’ente, pertanto, non trova applicazione il regime di responsabilità indiretta per fatto altrui previsto dall’art. 2049 c.c., dovendo la struttura rispondere direttamente per l’inadempimento delle obbligazioni su di essa gravanti in forza del contratto di spedalità.

Art. 2236 c.c. e responsabilità medica: hai diritto a un risarcimento?

L’art. 2236 c.c. limita la responsabilità del medico ai casi di dolo o colpa grave, ma le strutture sanitarie rispondono contrattualmente per i danni ai pazienti. Se hai subito un errore medico, scopri come tutelarti e ottenere il giusto risarcimento.

I presupposti per l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. in ambito medico

L’applicazione dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità medica è subordinata alla ricorrenza di specifici presupposti, che attengono sia alla natura della prestazione sia al tipo di condotta tenuta dal professionista. La giurisprudenza ha delineato nel tempo i contorni di tali presupposti, non senza oscillazioni interpretative.

Nozione di speciale difficoltà della prestazione

Il primo requisito per l’operatività dell’art. 2236 c.c. è che la prestazione medica implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Si tratta di un concetto non sempre agevole da definire in concreto e che ha dato luogo a orientamenti non univoci.

Secondo l’indirizzo prevalente, la speciale difficoltà sussisterebbe quando il caso affidato al medico presenta caratteri di straordinarietà ed eccezionalità, tali da trascendere la preparazione media del professionista. Ciò in particolare quando si tratti di interventi non ancora adeguatamente studiati e sperimentati nella pratica clinica o che risultino controversi nella letteratura scientifica.

Non integrerebbero invece gli estremi della speciale difficoltà le prestazioni routinarie o di comune esecuzione, anche se caratterizzate da un certo grado di complessità tecnica. Parimenti esclusi sarebbero i casi in cui le difficoltà derivino da deficit organizzativi o strutturali, rilevanti semmai sul piano della responsabilità autonoma dell’ente ospedaliero.

Distinzione tra imperizia e negligenza/imprudenza

Un secondo presupposto per l’applicazione dell’art. 2236 c.c., strettamente connesso al primo, attiene al tipo di condotta colposa ascrivibile al medico. È infatti consolidato l’orientamento per cui la norma opera con esclusivo riguardo all’imperizia, non anche alla negligenza e all’imprudenza.

Per imperizia si intende il deficit di abilità tecnica nell’esecuzione della prestazione, derivante da un’inadeguata preparazione professionale; negligenza e imprudenza attengono invece alla inosservanza delle comuni regole di diligenza, prudenza e perizia nello svolgimento dell’attività medica.

Solo l’imperizia, in quanto ricollegabile alla speciale difficoltà dell’intervento, consentirebbe di invocare il più favorevole regime dell’art. 2236 c.c.; per le altre forme di colpa, anche in caso di prestazioni complesse, varrebbero invece le ordinarie regole di responsabilità professionale.

Irrilevanza della gravità del danno

Un ultimo profilo da considerare attiene al rapporto tra applicabilità dell’art. 2236 c.c. e gravità delle conseguenze dannose subite dal paziente. Ebbene, la giurisprudenza è ferma nell’affermare che la norma opera a prescindere dall’entità del pregiudizio cagionato.

Ciò che rileva, ai fini della limitazione di responsabilità, è unicamente la speciale difficoltà della prestazione, valutata ex ante in base alle circostanze del caso. L’esito infausto dell’intervento, per quanto tragico, non esclude di per sé l’applicabilità dell’art. 2236 c.c., se ricorrono gli altri presupposti.

Così, ad esempio, è stata negata la responsabilità del medico per le gravissime lesioni riportate da una paziente, riconducibili a un intervento considerato di particolare complessità, in assenza di profili di colpa qualificabile come grave. Una conclusione che conferma la natura “oggettiva” del criterio della speciale difficoltà.

Art. 2236 c.c. e responsabilità della struttura sanitaria

La questione dell’applicabilità dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità dell’ente ospedaliero si pone in ragione delle peculiarità che connotano quest’ultima rispetto alla responsabilità del singolo medico. Mentre per il professionista la norma trova un’applicazione tendenzialmente pacifica, maggiori difficoltà si riscontrano con riguardo alla struttura sanitaria.

Responsabilità contrattuale autonoma della struttura

Un primo ostacolo all’estensione dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità dell’ente ospedaliero risiede nella natura autonoma di quest’ultima. Infatti, la struttura risponde a titolo contrattuale per l’inadempimento di obbligazioni a suo specifico carico, distinte da quelle gravanti sul medico.

Tali obbligazioni attengono all’organizzazione e all’efficienza dei servizi, alla messa a disposizione di personale qualificato e di attrezzature adeguate, all’apprestamento di misure volte a garantire l’igiene e la sicurezza dei pazienti. Si tratta di doveri che esulano dalla prestazione medica in senso stretto e che rilevano autonomamente ai fini della responsabilità dell’ente.

Inapplicabilità dell’art. 2236 c.c. all’ente ospedaliero

Proprio la diversa natura degli obblighi facenti capo all’ente ospedaliero rende problematica l’applicazione ad esso dell’art. 2236 c.c. Infatti, i doveri organizzativi e gestionali della struttura sanitaria non sembrano riconducibili al concetto di “problemi tecnici di speciale difficoltà” cui fa riferimento la norma.

Inoltre, l’art. 2236 c.c. presuppone un criterio di imputazione basato sulla colpa, ancorché limitato al dolo e alla colpa grave, mentre la responsabilità dell’ente per “difetto di organizzazione” si fonda su criteri valutativi di carattere sostanzialmente oggettivo. Ciò rende difficilmente compatibile il regime di responsabilità della struttura con la logica sottesa alla norma in esame.

Possibili eccezioni per deficit organizzativi

Nonostante le difficoltà sopra evidenziate, non mancano opinioni favorevoli a un’applicazione selettiva dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità dell’ente ospedaliero. Ciò in particolare con riguardo a deficit organizzativi ricollegabili a scelte gestionali di particolare complessità, implicanti valutazioni discrezionali in un contesto di incertezza tecnico-scientifica.

In questi casi limite, si argomenta, emergerebbe un profilo di “colpa organizzativa” della struttura, rispetto al quale potrebbe essere invocato il più favorevole regime di cui all’art. 2236 c.c., ferma restando la responsabilità piena per i casi di dolo o colpa grave. Si tratta, tuttavia, di un orientamento minoritario, che non inficia il prevalente indirizzo interpretativo contrario all’estensione della norma all’ente ospedaliero

L’interpretazione della giurisprudenza dell’art. 2236 c.c.

La giurisprudenza si è ripetutamente confrontata con la questione dell’applicabilità dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità dell’ente ospedaliero, delineando un orientamento prevalentemente restrittivo, solo di recente aperto a qualche spiraglio, peraltro assai limitato, di segno diverso.

Secondo l’indirizzo interpretativo largamente maggioritario, l’art. 2236 c.c. non trova applicazione nei giudizi di responsabilità promossi nei confronti dell’ente ospedaliero.

Le ragioni poste a fondamento di tale conclusione sono molteplici. In primo luogo, si osserva che la responsabilità della struttura sanitaria ha natura autonoma rispetto a quella del medico, fondata com’è sull’inadempimento di obblighi propri dell’ente, distinti da quelli del professionista.

In secondo luogo, si rileva che la responsabilità dell’ente attiene principalmente a doveri di tipo organizzativo, che esulano dall’ambito delle prestazioni d’opera intellettuale cui si riferisce l’art. 2236 c.c.

Infine, si evidenzia la difficoltà di riferire il concetto di speciale difficoltà tecnica, presupposto per l’applicazione della norma, all’attività dell’ente ospedaliero, connotata da profili gestionali e di adeguatezza strutturale.

Accanto all’orientamento tradizionale si registrano, in tempi recenti, alcune aperture a un’applicazione selettiva dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità dell’ente ospedaliero.

In particolare, si è ritenuto che la norma possa venire in rilievo con riguardo a scelte organizzative di peculiare complessità, che implichino valutazioni altamente discrezionali in un contesto di incertezza tecnico-scientifica.

In questi casi, si argomenta, verrebbe in considerazione un profilo di “colpa organizzativa” dell’ente ospedaliero, rispetto al quale potrebbe giustificarsi una limitazione di responsabilità ai casi di dolo o colpa grave, analogamente a quanto previsto per il prestatore d’opera intellettuale.

Si tratta, tuttavia, di pronunce isolate, che non scalfiscono il granitico orientamento contrario della giurisprudenza di legittimità, la quale continua a ribadire la non estensibilità dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità della struttura sanitaria.

Considerazioni conclusive sull’attuale rilevanza dell’art. 2236 c.c. in ambito sanitario

L’analisi svolta consente di trarre alcune considerazioni di sintesi sull’odierna portata applicativa dell’art. 2236 c.c. in ambito sanitario. Pur a fronte di un quadro interpretativo non sempre univoco, emergono alcuni punti fermi, accanto a profili ancora aperti a possibili sviluppi.

Un primo dato è la perdurante vitalità della norma con riguardo alla responsabilità del medico. Nonostante le critiche di una parte della dottrina, che ne ha denunciato l’anacronismo e l’inadeguatezza rispetto alle attuali istanze di tutela del paziente, l’art. 2236 c.c. continua a trovare applicazione nelle aule di giustizia, sia pure entro i rigorosi limiti delineati dalla giurisprudenza.

Più controversa appare invece la riferibilità della disposizione alla responsabilità dell’ente ospedaliero. L’orientamento nettamente prevalente esclude che la norma possa operare nei confronti della struttura sanitaria, in ragione della natura autonoma della sua responsabilità e della difficoltà di ricondurre i doveri organizzativi e gestionali al concetto di speciale difficoltà tecnica. Tuttavia, non mancano spunti per un’applicazione selettiva dell’art. 2236 c.c. ai casi di peculiare complessità delle scelte organizzative rimesse all’ente.

Un altro profilo problematico attiene al coordinamento tra il regime delineato dall’art. 2236 c.c. e la disciplina introdotta dalla legge Gelli in tema di responsabilità sanitaria. In particolare, ci si interroga sulla perdurante utilità della norma codicistica alla luce dell’art. 590-sexies c.p., che esclude la punibilità per imperizia lieve nel caso di rispetto delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali. Al riguardo, sembra corretto ritenere che le due previsioni operino su piani distinti e non sovrapponibili, l’una in ambito civilistico, l’altra in sede penale, conservando ciascuna una propria sfera di operatività.

Quindi, l’art. 2236 c.c., pur con i suoi limiti, continua a rivestire un ruolo significativo nel sistema della responsabilità medica. La sua ratio di contemperamento tra le opposte esigenze di tutela del paziente e di serenità del professionista mantiene intatta la sua validità, specie in un contesto, come quello attuale, connotato da crescenti difficoltà e incertezze nell’esercizio dell’attività sanitaria.

Spetterà alla dottrina e, soprattutto, alla giurisprudenza trovare un punto di equilibrio tra le istanze in gioco, attraverso un’applicazione dell’art. 2236 c.c. che, senza indulgere a ingiustificate deresponsabilizzazioni della classe medica, consenta al contempo di tener conto delle reali difficoltà cui il professionista può andare incontro nello svolgimento della sua delicata missione.

Senza difficoltà non c’è nulla che abbia valore.

Ovidio