Ultimo Aggiornamento 21 Maggio 2024
Interessi bancari e divieto di anatocismo
Grande attenzione è stata offerta, dagli organi della stampa nazionale, ad una ormai non più recente pronuncia della Suprema corte (si tratta di Cass., S.U., 7 ottobre-4 novembre 2004, n. 21095, pubblicata – tra l’altro – in Guida dir., 2004, 45, 22, con nota di E. Sacchettini, Cade il sistema praticato dalle banche in mancanza di un vero uso normativo, e in Corr. giur., 2005, 2, 214, con nota di B. Inzitari, Le sezioni unite e il divieto di anatocismo: l’asimmetria contrattuale esclude la formazione dell’uso normativo) sul tema dell’anatocismo.
E la portata distorsiva che talvolta connota l’attività dei mass media ha indotto l’opinione pubblica a ritenere che si sia trattato di una sorta di «svolta epocale» della Cassazione in merito alla valutazione della prassi bancaria di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi dovuti dai correntisti. Sennonché, com’è fin troppo noto ai civilisti, la (pur significativa, attesa la maggiore autorevolezza derivante dalla composizione allargata che caratterizza le pronunce a sezioni unite) decisione della giurisprudenza di legittimità affonda le proprie radici in revirements ben piú risalenti.
Vale la pena, tuttavia, di procedere con ordine. Sarà, pertanto, opportuno analizzare in via preliminare la decisione del tribunale urbinate (Trib. Urbino, sentenza 27/03/2004, nelle Corti Marchigiane, 2006, 1, 123), dalla quale si trarrà spunto per affrontare – benché solo sommariamente e senza alcuna pretesa di esaustività – l’ormai vexata quaestio rappresentata dall’argomento in discorso.
Istituti di credito ed interessi
Qualche umorista ha sardonicamente affermato che tra un banchiere ed un rapinatore non vi sia altra differenza se non il passamontagna che quest’ultimo è solito indossare. Potrebbe, invero, obiettarsi che di norma il primo non persegue i propri scopi con le armi, le quali caratterizzano invece l’attività del secondo; nondimeno, cosí opinando si trascurerebbe di considerare che gli istituti di credito dispongono di strumenti (si pensi soltanto alla minaccia di recesso da un contratto di apertura di credito a tempo indeterminato, operata nei confronti di un imprenditore gravemente esposto ed afflitto da una momentanea carenza di liquidità) che si rivelano talvolta piú persuasivi di lame o rivoltelle.
Facezie a parte, è inevitabile che si resti perplessi – o sconcertati, secondo la sensibilità di ciascuno – di fronte a vicende quali quella oggetto della sentenza in epigrafe.
La vicenda processuale al vaglio del Tribunale
Nella fattispecie in parola, una banca chiede ed ottiene un decreto ingiuntivo nei confronti di una società di capitali e dei due fideiussóri (oltre che soci) della stessa, per l’importo di circa 370 milioni delle vecchie (e, da taluno, rimpiante) lire. Gli ingiunti propongono opposizione lamentando, tra l’altro, l’illegittimità della clausola – prevista nel contratto di conto corrente intercorso con l’istituto di credito – secondo la quale gli interessi passivi sarebbero stati capitalizzati ogni tre mesi, cosí sommandosi al capitale ed iniziando a produrre, a loro volta, interessi. Espletata consulenza tecnica d’ufficio, emerge che la banca abbia applicato, nello svolgimento del rapporto, interessi complessivi per quasi 300 milioni di lire; e che, di tale importo, la somma di 150 milioni di lire sia dipesa dall’avvenuta capitalizzazione trimestrale degli interessi medesimi.
Alla luce di tali risultanze istruttorie, il giudice urbinate addiviene alla condivisibile decisione di revocare il decreto ingiuntivo emesso, riconoscendo il credito dell’istituto nella – piú esigua – misura di circa 220 milioni di lire, sulla base di una sintetica quanto lucida ricostruzione dello stato dell’arte in materia di anatocismo bancario (va, peraltro, rilevato che la pronuncia è anteriore alla citata Cass. n. 21095 S.U. del 2004). Particolarmente significativa, in quanto indice sufficientemente univoco della valutazione giudiziale circa la scarsa correttezza dell’ente creditizio, si rivela la statuizione in merito alle spese della consulenza tecnica d’ufficio, definitivamente poste a carico della banca; le spese di lite, invece, sono state integralmente compensate tra le parti, attesa la parziale soccombenza reciproca.
Il principale parametro normativo di riferimento della pronuncia è costituito dall’art. 1283 c.c., rubricato per l’appunto «anatocismo», secondo il quale gli interessi scaduti possono – purché si tratti di interessi maturati in relazione ad un periodo di almeno sei mesi – produrre altri interessi in due circostanze: a séguito di apposita domanda giudiziale ovvero per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza. Ciò, tuttavia, soltanto «in mancanza di usi contrari». Ed è questo inciso, con cui si apre la norma in discorso, che rappresenta il fulcro del dibattito esegetico sulla legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi.
Cosa è l’anatocismo
Il divieto dell’anatocismo (dal greco anatokismós, composto di aná=sopra e tókos=interesse), già sancito dagli imperatori Diocleziano e Massimiliano, seguíti poi da Giustiniano, si fonda sulla concezione – di matrice squisitamente cattolica (si rammenti, del resto, il passo del Vangelo di Luca, 6, 35, ove si legge: «Mutuum date nihil inde sperantes») – secondo la quale l’attitudine del denaro a produrre nuova ricchezza deve essere temperata al fine di scongiurare che il creditore possa realizzare un eccessivo vantaggio a detrimento del debitore. Lo sfruttamento del povero, del resto, si colloca in netta antitesi rispetto al dovere cristiano di carità.
Il codice napoleonico francese e, sulla scia di questo, quello civile italiano del 1865 superarono tale divieto, ammettendo la pratica anatocistica, seppur con rigorose limitazioni a tutela del soggetto debitore. In particolare, a mente dell’art. 1232 del codice del 1865 gli interessi maturati in un anno potevano produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale ovvero in forza di una convenzione successiva alla loro scadenza. Nella materia commerciale l’anatocismo restava, invece, regolato dagli usi.
L’attuale art. 1283 c.c. ha sostanzialmente mutuato il contenuto della disposizione da ultimo menzionata, riducendo da un anno a sei mesi la durata del periodo minimo di maturazione degli interessi e generalizzando la potenzialità derogatoria della fonte consuetudinaria (cfr., sul punto, A Riccio, L’anatocismo, Padova, 2002, 1 ss. e l’ampia bibliografia ivi citata).
La ratio sottesa alla norma in esame viene tradizionalmente individuata in una duplice finalità: da un lato, quella di prevenire il rischio di fenomeni usurari; dall’altro lato, quella di consentire al debitore di rendersi anticipatamente conto dell’esatto ammontare del suo debito, avvertendolo dei maggiori costi che potrebbe comportare l’inadempimento successivo alla domanda giudiziale (cfr. A. Fedele, Appunti in tema di anatocismo giudiziale, in Riv. dir. comm., 1952, I, 30 ss.), e garantendo altresí che la sua accettazione della clausola anatocistica – dovendo necessariamente essere (contenuta in una convenzione) successiva alla scadenza degli interessi – non sia coartata dalla necessità di accedere al credito.
È appena il caso di sottolineare che gli «usi contrari», cui rinvia l’art. 1283 c.c., sono quegli usi normativi (o consuetudini) previsti dal n. 4 dell’art. 1 disp. prel. c.c., i quali, ai sensi dell’art. 8 disp. prel. c.c., hanno efficacia in quanto richiamati da leggi o regolamenti, nelle materie da essi regolate. Non vengono, pertanto, in questione i cd. «usi negoziali» (o clausole d’uso) che, ex art. 1340 c.c., si intendono inseriti nel contratto se non risulta una contraria volontà delle parti, né tantomeno gli «usi interpretativi» di cui all’art. 1368 c.c., consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo dove il contratto è stato stipulato o ha sede l’impresa di uno dei contraenti, i quali non rilevano ai fini dell’integrazione del contratto, rivestendo invece un ruolo sussidiario nell’operazione ermeneutica.
Lo stato della giurisprudenza anteriore al 1999
Ora, con una serie di sentenze emanate nel ventennio anteriore all’anno 1999, la Suprema corte aveva reiteratamente enunciato il principio secondo cui doveva reputarsi esistente, nel nostro ordinamento, una consuetudine idonea a derogare, nei rapporti tra banche e clienti, ai limiti posti dall’art. 1283 c.c. all’applicazione dell’anatocismo (Cass., 15 dicembre 1981, n. 6631, in Vita not., 1982, 738, antesignana in proposito, ha affermato che, «nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata, ma sugli interessi da questa prodotti»; tale posizione è stata ripetutamente avallata da Cass., 19 agosto 1983, n. 5409, in Giust. civ. mass., 1983, 8; Cass., 5 giugno 1987, n. 4920, in Banca borsa tit. cred., 1988, II, 578; Cass., 6 giugno 1988, n. 3804, in Banca borsa tit. cred., 1990, II, 186; Cass., 30 maggio 1989, n. 2644, in Banca borsa tit. cred., 1991, II, 198; Cass., 20 giugno 1992, n. 7571, in Giust. civ. mass., 1992, 6; Cass., 1 settembre 1995, n. 9227, in Giust. civ. mass., 1995, 1585; Cass., 17 aprile 1997, n. 3296, in Giust. civ. mass., 1997, 596; Cass., 18 dicembre 1998, n. 12675, in Giust. civ. mass., 1998, 2610).
Già dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso, tuttavia, la giurisprudenza e, soprattutto, la legislazione – specie quella di origine comunitaria – avevano dato impulso ad un inarrestabile processo (tuttora, peraltro, in corso) di mutamento del quadro normativo, progressivamente sviluppatosi in direzione di una viepiú intensa protezione del contraente debole, in funzione dell’ineludibile esigenza di salvaguardare l’equilibrio delle posizioni contrattuali delle parti (si pensi soltanto, a questo proposito, alla disciplina della concorrenza del 1990, a quella dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali del 1992, a quella delle clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore del 1996, a quella della subfornitura del 1998, a quella dei contratti a distanza del 1999, a quella della vendita dei beni di consumo del 2002; sul tema si veda L. Ferroni [a cura di], Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, Napoli, 2002).
La svolta giurisprudenziale di Cass., 16 marzo 1999, n. 2374
Ebbene, in piena armonia con tali linee evolutive, con una celebre sentenza pronunciata – verrebbe da dire: significativamente – in limine al preludio della primavera dell’anno 1999 (Cass., 16 marzo 1999, n. 2374, in Guida dir., 1999, 13, 43), la giurisprudenza di legittimità ha sovvertito il consolidato orientamento giurisprudenziale in merito alla valutazione della prassi bancaria di capitalizzare trimestralmente gli interessi, negando la configurabilità, nel nostro ordinamento, di un uso normativo in grado di escluderne il contrasto col divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c.
L’apparato argomentativo che sorregge la decisione testé menzionata, corposo ed articolato, si fonda su motivazioni di carattere storico oltre che giuridico e logico.
Il punto di partenza è la constatazione che, com’è noto, due sono i requisiti strutturali della consuetudo (su cui v. N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942; Idem, «Consuetudine [teoria gen.]», in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 426). Da una parte, l’elemento oggettivo o materiale, costituito dall’usus e dalla diuturnitas, cioè a dire dalla ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento nell’àmbito di una collettività storicamente individuata. Dall’altra parte, l’elemento soggettivo o psicologico dell’opinio iuris et necessitatis, ovverosia la convinzione, propria di chi pone in essere il comportamento, che esso sia giuridicamente obbligatorio in quanto conforme ad una norma vincolante esistente nell’ordinamento.
L’indagine svolta dalla Suprema corte, pertanto, non può limitarsi ad esaminare se, nei rapporti tra banca e cliente, esista una generica prassi favorevole all’applicazione dell’anatocismo (atteso che soltanto una norma consuetudinaria specifica e puntuale, fonte di diritto oggettivo, potrebbe sostituire la disciplina limitativa legale), ma è tesa alla verifica dell’effettiva sussistenza di una consuetudine – che risponda ai connotati testé tracciati – in forza della quale gli interessi a carico del cliente debbano essere capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori interessi) ogni trimestre.
A tale fine, la Corte procede ad una revisione in chiave critica dell’orientamento previgente, dal quale si discosta nettamente pur senza riconoscerlo in maniera aperta. Forse per timore di smentire troppo seccamente sé stessa, infatti, la Cassazione esclude di avere in precedenza affermato l’esistenza di una norma consuetudinaria in tema di anatocismo bancario, pretendendo di essersi limitata ad osservare il dato di comune esperienza secondo cui il fenomeno trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti (del che, invero, pare lecito dubitare, in considerazione sia della esplicita portata delle pregresse decisioni, sia della natura del ruolo rivestito dall’organo della nomofilachia, il quale – nel decidere – enuncia princípi di diritto in relazione a norme vigenti nell’ordinamento e non si limita a considerazioni di carattere constatativo che si rivelerebbero, di per sé, tutt’affatto irrilevanti).
Ad ogni modo, la S. corte, escluso ogni rilievo alle cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall’associazione di categoria (l’Associazione bancaria italiana), le quali hanno natura meramente pattizia (e sono risalenti, peraltro, al 1952), non ravvisa alcun elemento che induca a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzasse la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente. Del resto, dopo l’entrata in vigore dell’art. 1283 c.c. una siffatta consuetudine non si sarebbe potuta – in quanto contra legem – validamente formare (il divieto di anatocismo, infatti, tollera deroghe soltanto ad opera di usi normativi già esistenti al momento della sua introduzione).
Inoltre, e risolutivamente, la Cassazione osserva che l’inserimento nei contratti di conto corrente delle clausole che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente (a fortiori in quanto gli interessi a carico della banca – con evidente ed ingiustificata disparità di trattamento – sono capitalizzati soltanto annualmente) viene recepito e tollerato dagli utenti dei servizi bancari come ineludibile presupposto per l’accesso al credito e non già in quanto le stesse clausole siano ritenute conformi a norme del diritto oggettivo. Si tratta, in sostanza, di un atteggiamento psicologico ben lungi da quell’opinio iuris che, sola, integrerebbe il requisito soggettivo dell’uso normativo.
Sí che il punto di approdo della decisione in discorso è il rilievo della nullità della previsione contrattuale di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, per essere la stessa basata su un uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria.
La conferma dell’orientamento giurisprudenziale inaugurato nel 1999
Tale conclusione ha ricevuto un primo incondizionato avallo, ad appena due settimane di distanza, da Cass., 30 marzo 1999, n. 3096 (in Foro it., 1999, I, 1153), che ha esplicitamente dichiarato di ribadire e condividere le argomentazioni espresse dalla precedente Cass. n. 2374 del 1999. Il principio è stato, poi, reiteratamente confermato da una serie omogenea di pronunce (cfr., ex plurimis, Cass., 11 novembre 1999, n. 12507, in Corr. giur., 1999, 1485; Cass., 4 maggio 2001, n. 6263, in Dir. prat. soc., 2001, 22, 73; Cass., 13 giugno 2002, n. 8442, in Giust. civ., 2002, I, 2109; Cass., 18 settembre 2003, n. 13739, in Contratti, 2004, 156).
In realtà, ad inficiare il supposto raggiungimento dell’univocità di vedute, non sono mancate voci fuori dal coro, recisamente critiche nei confronti del piatto orizzonte ermeneutico venutosi a delineare in materia di anatocismo bancario. In dottrina, in particolare, si è – con ampie e suggestive argomentazioni – sostenuto che sia necessario discernere tra disciplina degli interessi moratòri e regime degli interessi corrispettivi.
Soltanto ai primi, infatti, risulterebbe applicabile la prospettiva dell’art. 1283 c.c.; per i secondi, invece, l’interesse composto, lungi dal collocarsi nell’ottica sanzionatoria dominata dal principio proibitivo dell’anatocismo, concorrerebbe a quantificare l’esatta entità della controprestazione dovuta dal cliente all’istituto di credito (cosí, G. La Rocca, L’anatocismo. Dall’inadempimento ai contratti di credito, Napoli, 2002; nello stesso senso sembrerebbe muoversi Cass., 17 aprile 1999, n. 3845, in Banca borsa tit. cred., 2000, II, 254, sovente invocata non del tutto a proposito, secondo cui «l’anatocismo può trovare applicazione con riferimento agli interessi maturati nel corso del rapporto, i quali hanno natura compensativa [recte: corrispettiva], ma non è operativo nei confronti degli interessi dovuti sul saldo finale del conto, che hanno, invece, natura moratoria»).
L’autorevole avallo di Cass., S.U., 7 ottobre-4 novembre 2004, n. 21095
Nondimeno, con la nota decisione a sezioni unite del novembre 2004, cui si accennava in principio, la Cassazione ha – verosimilmente in via definitiva – confermato la propria posizione, riconoscendo ancóra una volta la nullità delle clausole anatocistiche.
La sentenza, per inciso, si è preoccupata altresí di specificare che tale principio deve trovare generale applicazione vuoi per il periodo anteriore vuoi per quello posteriore al mutamento giurisprudenziale avvenuto nel 1999.
La precisazione – che sembrerebbe, invero, un po’ lapalissiana – si è rivelata, al contrario, necessaria, attesa la prospettazione (dalla stessa Corte definita «suggestiva» ancorché non condivisibile) del ricorrente, che aveva avanzato l’ipotesi secondo cui il revirement della giurisprudenza di legittimità fosse stato determinato non già da un ripensamento in ordine alla natura dell’uso anatocistico, quanto piuttosto dall’accertamento dell’avvenuta estinzione (per desuetudine) di un uso normativo sino ad allora vigente.
In realtà, tuttavia, la S. corte ha avuto modo di precisare che non è sufficiente l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale a conferire – un requisito intrinseco ed ontologico qual è la – normatività ad una prassi che di per sé non integri una consuetudine. Sí che il carattere negoziale e non normativo dell’uso avente ad oggetto la capitalizzazione trimestrale degli interessi è stato inequivocabilmente asseverato (cfr., da ultimo, Cass., 25 febbraio 2005, n. 4095, in Guida dir., 2005, 16, 58).
La questione, ad ogni modo, si rivela – al presente – notevolmente ridimensionata. Com’è noto, infatti, neppure cinque mesi dopo la pronuncia di Cass. n. 2374 del 1999 il legislatore è corso ai ripari: l’art. 25, comma 3 del d.lg. 4 agosto 1999, n. 342, ha statuito la validità e l’efficacia delle clausole relative alla produzione degli interessi sugli interessi maturati, sino alla data in cui il Cicr (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio), secondo il disposto dell’art. 25, comma 2, d.lg. n. 342 del 1999, avesse determinato criteri e modalità per la capitalizzazione degli interessi.
Con deliberazione del 9 febbraio 2000 (su cui v. C. M. De Iuliis, Riflessioni in tema di capitalizzazione degli interessi alla luce della Deliberazione CICR 9 febbraio 2000, in Contr. impr., 2001, 736), quindi, il Cicr ha stabilito la possibilità di prevedere la capitalizzazione infrannuale sol che sia contemplata la medesima periodicità nel conteggio degli interessi creditòri e di quelli debitòri (la qual regola parrebbe dettata da assennatezza ed equanimità, se non fosse che i tassi dell’interesse a debito delle banche sono – di norma – di entità irrisoria rispetto a quelli dell’interesse a credito delle stesse). Sennonché, la Corte costituzionale, con sentenza 9-17 ottobre 2000, n. 425 (in Guida dir., 2000, 40, 36) ha decretato l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega della norma su menzionata nella parte relativa alla legittimazione ex post delle pattuizioni anatocistiche.
Lo stato dell’arte al momento della decisione
Allo stato attuale, pertanto, la materia dell’anatocismo è regolata, in deroga all’art. 1283 c.c., dalla menzionata deliberazione del Cicr, che consente la capitalizzazione degli interessi nei rapporti bancari purché sia riservato identico trattamento agli interessi attivi e passivi.
La nullità delle pregresse clausole di capitalizzazione, in sostanza, conserverà rilievo soltanto con riferimento ai contratti che abbiano trovato svolgimento prima del mese di luglio dell’anno 2000 (ai sensi dell’art. 7, comma 1, deliberazione Cicr, 9 febbraio 2000, infatti, «Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio»), salvo trovare applicazione anche successiva in quei rapporti che non siano stati tempestivamente adeguati alle nuove regole.
Riflessioni conclusive in tema di anatocismo
Resta soltanto da accennare a due residui profili, invero tutt’altro che irrilevanti.
Deve, da un lato, sottolinearsi che non v’è univocità di vedute in ordine all’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione (sicuramente decennale) dell’azione finalizzata alla restituzione delle somme illegittimamente riscosse dagli istituti di credito in forza di stipulazioni anatocistiche nulle. A tal proposito, se l’opinione largamente dominante ritiene che la prescrizione inizi a maturare da ogni singolo prelievo, versamento od accreditamento, si segnala una differente tesi, recentemente fatta propria da un’apprezzabile giurisprudenza di merito, a mente della quale i contratti bancari di credito con esecuzione ripetuta di piú prestazioni avrebbero natura unitaria e darebbero luogo ad un unico rapporto giuridico anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, i quali resterebbero privi di autonomia (cosí Trib. Cassino, 29 ottobre 2004, in Guida dir., 2004, 49, 71). Sí che il momento iniziale del termine prescrizionale comincerebbe a decorrere – in conformità al disposto dell’art. 2935 c.c. – soltanto dalla definitiva chiusura del rapporto, che determinerebbe l’effettiva esigibilità del credito restitutorio.
Dall’altro lato, va precisato che, una volta riconosciuta la nullità della clausola che preveda la capitalizzazione trimestrale, essa andrà sic et simpliciter espunta dalla regolamentazione giuridica del rapporto di credito (di là dalla sorte che, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c., potrebbe essere destinata al contratto, profilo sul quale non è invero il caso di soffermarsi in questa sede). Non vi è alcuna ragione, pertanto, affinché possa invocarsi – come da piú parti suole farsi – l’operatività di un differente criterio di capitalizzazione (piú frequentemente, quello annuale). Infatti, epurato il contratto di credito dalla clausola anatocistica nulla, nessuna fonte – negoziale o normativa – impone l’integrazione del contratto stesso con una previsione di capitalizzazione annuale degli interessi (in questo senso cfr., da ultimo, Trib. Pescara, 18 novembre 2005, in Italia Oggi, 9 gennaio 2006, 22). In sostanza, non troverà applicazione alcuna forma di anatocismo, e gli interessi, ancorché scaduti, non produrranno altri interessi sino ad un’eventuale convenzione successiva ovvero al giorno della domanda giudiziale
(*) L’articolo riproduce il testo del commento alla sentenza di Trib. Urbino, sentenza 27/03/2004, edita sulle Corti Marchigiane, 2006, 1, 123. La pubblicazione può essere scaricata qui sotto.
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