Ultimo Aggiornamento 30 Settembre 2024
L’impianto di un Catetere Venoso Centrale (CVC) rappresenta, nei diversi contesti clinici in cui può emergerne la necessità, una procedura apparentemente banale, ma nondimeno critica e rischiosa, perché il suo fallimento può portare a ripercussioni gravi e durature.
Il caso di Adalgisa (nome ovviamente modificato per ragioni di privacy) ne è un esempio paradigmatico: l’errato posizionamento del CVC ha trasformato una routine ospedaliera in una cascata di eventi avversi. Ne è conseguito un dramma personale e familiare, che abbiamo fatto valere in un giudizio civile culminato nel risarcimento di circa 500.000 euro riconosciuto dal Tribunale alla paziente e ai suoi cari.
In questo articolo analizzeremo questa vicenda clinica, che dimostra quanto un singolo errore possa alterare irrevocabilmente la vita di un paziente, mettendo in luce la profonda vulnerabilità umana di fronte al rischio clinico. Approfondiremo inoltre le sue implicazioni processuali, esaminando come il sistema della responsabilità civile in sanità sia chiamato a fornire risposte adeguate, intervenendo per riparare – nei limiti del possibile – il torto subito.
§ 1. La vicenda clinica di Adalgisa
La signora Adalgisa era una donna anziana, ma ancora estremamente autonoma e vitale. A seguito del riscontro di sangue occulto nelle feci, si sottopose a esami più approfonditi (colonscopia). La biopsia eseguita in tale occasione rivelò la presenza di un adenocarcinoma colico infiltrante (un tipo di tumore al colon). Ulteriori esami diagnostici, tra cui una TAC, confermarono la necessità di un intervento chirurgico per rimuovere la parte affetta del colon.
Adalgisa fu quindi ricoverata e preparata per l’intervento di emicolectomia destra. In vista dell’operazione, si rese necessario il posizionamento di catetere venoso centrale (CVC): un dispositivo medico lungo circa 20 centimetri e di alcuni millimetri di diametro, che viene normalmente inserito in una delle grandi vene centrali per facilitare l’infusione di liquidi come soluzioni fisiologiche, farmaci o nutrizione parenterale.
Purtroppo, però, al momento del posizionamento da parte del medico anestesista, il catetere, anziché in vena giugulare interna destra, quale era l’intenzione dell’operatore, venne posizionato in arteria, e più precisamente fu introdotto nell’arteria succlavia, in corrispondenza dell’origine dell’arteria vertebrale destra e fatto scorrere lungo la brachiocefalica, fino a sporgere nell’arco aortico.
§ 1.1 CVC malposizionato: ora che fare?
L’errata cateterizzazione è un’evenienza piuttosto rara e molto delicata.
Infatti, il CVC malposizionato non può essere semplicemente sfilato via, ma deve essere rimosso in ambiente specialistico (chirurgia vascolare), con un intervento di radiologia interventistica gravato, di per sé, da un elevato tasso di complicanze.
E deve essere rimosso il prima possibile, perché il rischio che si verifichi una complicanza è proporzionale al tempo di permanenza del corpo estraneo in arteria.
Nel caso di Adalgisa, purtroppo, si attese quasi una settimana per procedere alla rimozione del CVC.
§ 1.2 Le conseguenze dannose derivate dal malposizionamento del CVC (e dalla sua tardiva rimozione)
All’esito della (tardiva) rimozione del catetere venoso centrale, Adalgisa ha iniziato a presentare agitazione motoria ed afasia (disturbi del linguaggio).
Si trattava verosimilmente di un TIA (Transient Ischemic Attack, in italiano: Attacco Ischemico Transitorio), cioè di un episodio di ischemia cerebrale (confusione mentale, difficoltà di articolare le parole) che, il più delle volte, si risolve rapidamente senza lasciare conseguenze.
Un TIA, però, aumenta del 10% la possibilità che, nelle 48 ore successive, arrivi un vero e proprio Ictus.
Sennonché Adalgisa non viene trattenuta in osservazione, e neppure viene indirizzata verso una Stroke Unit (struttura specializzata per il trattamento delle patologie cerebrovascolari acute), dove avrebbe potuto giovarsi di una diagnosi più tempestiva e di migliori possibilità di recupero in caso di Ictus vero e proprio.
E così, la sintomatologia ischemica cerebrale della paziente, costellata di piccole crisi (TIA), continua a peggiorare sino a che, puntualmente, proprio due giorni (48 ore) dopo la procedura di rimozione del CVC, viene colpita da un Ictus ischemico, che le lascia una importante invalidità permanente (quantificata in misura pari al 65-70%).
§ 1.3 La condizione odierna di Adalgisa
La signora Adalgisa ha così visto repentinamente stravolta la propria quotidianità e le abitudini di vita: dall’essere una persona totalmente autonoma, autosufficiente e con una vita sociale attiva, oggi ella si trova ad avere necessità di assistenza continua, impossibilitata a coltivare i rapporti sociali e le condizioni esistenziali precedenti.
Questo drastico cambiamento ha influenzato profondamente non solo la sua vita quotidiana, ma anche quella dei più stretti familiari che hanno dovuto riorganizzare i propri impegni per garantirle le cure, il sostegno e l’assistenza di cui necessita costantemente.
§ 2. La ricostruzione medico legale e specialistica
La vicenda è stata doverosamente sottoposta ad esame collegiale di un medico legale e uno specialista in anestesiologia e rianimazione, i quali hanno posto in evidenza plurimi profili di responsabilità ascrivibili ai sanitari e alle strutture che ebbero in cura la sig.ra Adalgisa.
Nulla da eccepire, naturalmente, riguardo all’indicazione al trattamento chirurgico dell’adenocarcinoma del colon, il cui buon esito operatorio, nemmeno bisognevole di trattamento chemioterapico, unitamente al profilo anatomo/istologico, deponevano invero per una condizione tale da non incidere funzionalmente né sull’aspettativa di vita della paziente.
Tuttavia, è stato evidenziato che l’errore occorso nel posizionamento del Catetere Venoso Centrale (CVC) non poteva conciliarsi con la buona prassi medica, a maggior ragione in considerazione del fatto che fu eseguito da un medico specialista in anestesia e rianimazione.
§ 2.1 Il contesto: le leges artis sul posizionamento del CVC
Con riferimento al cateterismo venoso centrale, vi è un’ampia messe di documenti condivisi e linee guida finalizzati a scongiurare (ed eventualmente gestire) le complicanze infettive.
Meno corposa invece, ma non certo assente, la documentazione bibliografica relativa alla buona prassi procedurale nel posizionamento del CVC (nel caso specifico, attraverso la vena giugulare interna).
In particolare, i riferimenti più pertinenti, internazionali ed italiani, sono rappresentati da:
- “Practical guide for safe central venous catheterization and management 2017” del Safety Committee of Japanese Society of Anesthesiolists, J. Anesth, 2020; 34(2): 167-186;
- “Practice Guideline for Central Venous Access 2020”; Anesthesiology, Jan 2020, v 132;
- “Linee di indirizzo regionali sulla buona pratica di cura degli accessi vascolari”, Regione Emilia Romagna, Gruppo di lavoro regione Determina n. 7252 del 16/05/2018;
- “Linee-guida per l’inserimento e la gestione del cateterismo venoso centrale”, Azienda Ospedaliera di Perugia; 2008, revisione 2012.
§ 2.2 Gli errori commessi nella procedura di inserimento del CVC (e come evitarli)
In questo contesto bibliografico, che riassume una visione ampiamente accettata a livello internazionale, è chiaro che, quando si sceglie la via giugulare interna, una corretta valutazione dei punti di riferimento anatomici durante l’inserimento dell’ago riduce notevolmente il rischio di perforare un’arteria.
Questo rischio, descritto in letteratura tra il 4% e il 9,3%, è ulteriormente ridotto – quasi azzerato – dall’uso dell’ecografia, tecnica che l’anestesista ha dichiarato di aver utilizzato nel caso della signora Adalgisa.
Dunque, per uno specialista esperto, l’inserimento ecoguidato di un catetere venoso centrale nella giugulare interna è una procedura di routine (ne consegue, per inciso, che, in ambito civile, la struttura sanitaria dovrebbe dimostrare che questo evento, sebbene prevedibile, non fosse evitabile).
Nonostante ciò, esiste comunque un rischio, seppur molto basso, di perforare un’arteria.
Se questo accade, l’operatore può intervenire immediatamente, seguendo le buone pratiche. Queste prevedono di verificare il colore e il flusso del sangue in uscita dall’ago, distinguendo tra sangue arterioso (rosso vivo, pulsatile, ad alta pressione) e sangue venoso.
In caso di ulteriori dubbi, si può ricorrere all’emogasanalisi.
Questi semplici accorgimenti permettono di intervenire subito, rimuovendo l’ago e applicando una pressione temporanea locale, evitando nella maggior parte dei casi emorragie o ematomi che richiederebbero procedure di drenaggio più invasive.
È molto raro trovare in letteratura casi simili a quello della signora Adalgisa, probabilmente perché non è contemplato che, dopo aver accidentalmente perforato un’arteria, l’operatore proceda comunque con la cateterizzazione.
Non è un caso se generalmente, nei moduli di consenso informato, tale evenienza non viene neppure presa in considerazione.
§ 3. I profili di colpa nella condotta sanitaria
Abbiamo più volte sottolineato come il concetto di “colpa medica” consista nello scostamento tra la condotta concretamente tenuta da una struttura sanitaria e la regola di condotta che si sarebbe dovuta tenere (e che invece non è stata tenuta).
Null’altro che i tradizionali canoni di negligenza, imperizia, imprudenza.
E quali sono stati, nel caso della signora Adalgisa, i principali profili di colpa addebitabili alle strutture sanitarie?
Eccone di seguito un breve compendio.
§ 3.1 Errore di posizionamento del catetere venoso centrale
Come si è detto, il primum movens della vicenda clinica in questione, e primo “punto di caduta” nell’operato dei sanitari, deve essere individuato nell’indubbio errore di posizionamento del catetere venoso centrale.
Questo malposizionamento, non rimediato da un sollecito ravvedimento operoso dell’anestesista, ha determinato una cascata di eventi responsabili della tromboembolia cui è andata, purtroppo, incontro la signora Adalgisa.
Ma non è tutto.
§ 3.2 Ritardata rimozione del CVC dall’arteria
E’ noto che le complicanze di un corpo estraneo in arteria sono proporzionali al tempo di permanenza. Si deposita infatti sulla loro superficie uno strato di fibrina (più è lunga la permanenza del CVC nel vaso, maggiore è l’apposizione di fibrina sul catetere).
Il corpo estraneo funge, così, da richiamo e punto di fissazione per tutti i batteri.
Come complicanze derivano “vasculite” (infiammazione dell’endotelio vascolare per irritazione chimica o infettiva) e “tromboembolia” (termine che si riferisce a un coagulo che si forma sulle pareti irritate e migra entro il letto vascolare, venoso o arterioso).
Nel caso della sig.ra Adalgisa, con ingiustificabile attendismo, è stata fatta trascorrere una settimana prima di procedere alla rimozione del catetere inserito in arteria con procedura di radiologia interventistica, così aumentando esponenzialmente il rischio di complicazioni vascolari, poi puntualmente verificatesi.
§ 3.3 Incompletezza nella verbalizzazione della procedura di radiologia interventistica
Detto che l’intervento di radiologia interventistica era la scelta terapeutica giusta e doveva essere fatto entro 24-48 ore, deve essere altresì rilevato che nel verbale della procedura mancavano informazioni importanti, come il tempo di gonfiaggio del palloncino usato durante l’intervento.
In particolare, non risultava chiaro se il flusso sanguigno nelle arterie carotidea o vertebrale fosse stato interrotto e per quanto tempo (in casi simili riportati in letteratura, l’interruzione del flusso sanguigno per emostasi con palloncino aveva avuto una durata compresa tra 5 e 15 minuti).
Mancavano anche informazioni sull’anestesista chiamato per monitorare i parametri vitali della paziente, pur dichiarati nella norma, e non era stato precisato quando fosse avvenuto l’episodio di difficoltà nell’eloquio da parte della paziente.
L’assenza di queste importanti informazioni, a ben vedere, precludeva una corretta comprensione dello svolgimento dei fatti, con ogni necessaria conseguenza in termini di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di mancato assolvimento dell’onere della prova a suo carico.
§ 3.4 Omessa osservazione della paziente nella fase post-radiologia interventistica
Nel corso dell’intervento di rimozione del CVC, la signora Adalgisa ha mostrato agitazione e difficoltà a parlare. Si trattava verosimilmente di un TIA (Attacco Ischemico Transitorio): un breve episodio di ridotto flusso sanguigno al cervello che aumenta il rischio di un vero ictus entro 48 ore.
Dopo la procedura, la paziente ha continuato ad avere piccoli episodi di TIA per due giorni, infine culminati in un ictus vero e proprio, che ha determinato emiparalisi del lato destro del corpo, disturbi nel linguaggio ed importante perdita della funzione visiva.
E’ stata decisamente imprudente la scelta di non trattenere la signora Adalgisa in osservazione. Se la paziente fosse stata ricoverata in una Stroke Unit, le sue condizioni avrebbero potuto essere monitorate meglio e il danno ischemico al cervello probabilmente ridotto.
Dunque, anche la gestione post-intervento ha tradito le buone pratiche mediche e le linee guida applicabili, privando la paziente della concreta possibilità di prevenire l’ictus, o quantomeno ridurne significativamente le conseguenze.
§ 4. Il percorso legale: dalla richiesta risarcitoria alla condanna giudiziale
Adalgisa e i suoi familiari si sono rivolti al nostro studio per verificare se, come ipotizzavano, la vicenda clinica potesse evocare un impegno di responsabilità per le strutture sanitarie coinvolte.
L’istruttoria esperita ha confermato i sospetti della famiglia, pertanto abbiamo dato avvio al percorso finalizzato al risarcimento danni in ambito medmal.
Per trovare un accordo, tuttavia, serve la disponibilità di tutte le parti.
E le aziende responsabili talvolta – ma forse è più corretto dire: quasi sempre – non sono collaborative, perlomeno nelle fasi iniziali.
Così è accaduto in questo caso.
§ 4.1 L’ATP e la mancata conciliazione
Pertanto, dopo un celere naufragio del tentativo di gestione stragiudiziale del caso, abbiamo introdotto un procedimento per Accertamento Tecnico Preventivo con finalità conciliative.
Si tratta, com’è noto ai più, di una procedura che la legge Gelli Bianco ha istituzionalizzato come condizione di procedibilità della domanda di risarcimento danni da malasanità, imponendo il preventivo accesso alla “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” di cui all’art. 696 bis c.p.c., quale valida alternativa rispetto alla (meno efficace) procedura di mediazione.
Bene. In questa sede i consulenti tecnici d’ufficio – nominati, cioè, dal Tribunale – hanno riconosciuto e stigmatizzato i plurimi profili di colpa addebitati alle strutture sanitarie, riconoscendone la sicura correlazione causale con il danno sofferto dalla paziente.
Sempre in sede di ATP, i CC.TT.UU. hanno anche formulato una proposta di definizione transattiva a contenuto economico, rispetto alla quale Adalgisa e i suoi familiari hanno manifestato adesione.
Al contrario, le aziende sanitarie hanno continuato a resistere, così compromettendo l’esito del tentativo di conciliazione posto in essere dagli ausiliari del Giudice
§ 4.2 Il procedimento di merito e l’ordinanza conclusiva
Completato l’ATP ed acclarata così, all’esito, la fondatezza dell’ipotesi di responsabilità sanitaria già formulata, è stato dunque necessario promuovere il giudizio di merito di cui all’art. 702 bis c.p.c. (il cd. “rito sommario di cognizione”, allora vigente, poi falcidiato dalla riforma Cartabia).
Svolta una celere attività istruttoria, con escussione anche di alcuni testimoni, questo giudizio è stato completato in tempi tutto sommato ragionevoli (meno di due anni).
L’ordinanza conclusiva, seppur non brillantissima sotto il profilo della tecnica redazionale (potete scaricarla qui in calce), ha condannato in solido le due aziende sanitarie convenute al risarcimento dei danni in favore di Adalgisa e dei suoi congiunti, per un importo complessivo – come già precisato – di circa 500mila euro.
§ 5. Riflessioni conclusive
L’evento avverso che ha colpito Adalgisa ha stravolto molte vite: la sua e quelle dei suoi familiari.
Prima dell’evento ischemico, Adalgisa era una persona pienamente autonoma ed eccezionalmente attiva. Da una situazione di fiera indipendenza e di vitale socialità che caratterizzava la sua vita prima dell’intervento, si è ritrovata a non essere più abile nei gesti quotidiani di vita; dall’essere il perno della famiglia e punto di riferimento per figli e nipoti, oggi si vede costretta a ricercare l’altrui sostegno per le più basilari attività della vita quotidiana e ad aver bisogno di costante assistenza.
Questa condizione fisica ed esistenziale ha fortemente inciso la sua sfera psicologica, tanto che la sig.ra Adalgisa presenta oggi una sintomatologia di tipo depressivo per la quale si è reso necessario anche un sostegno farmacologico.
§ 5.1 Il senso del risarcimento
E’ giusto oppure no che Adalgisa e la sua famiglia venissero almeno risarciti?
Noi crediamo di sì.
Crediamo che risarcire un paziente danneggiato e la sua famiglia, che soffre con lui e per lui, non configuri ingiusta appropriazione di denaro pubblico, idonea a sottrarre risorse ad un sistema sanitario che traballa per ben altre ragioni.
Crediamo che il principio di solidarietà, che affonda le radici nell’art. 2 della Costituzione, imponga debita compensazione per tutte le menomazioni che derivano da un fatto illecito, ancorché commesso da un servizio sanitario pubblico.
E crediamo anche che il risarcimento, avendo funzione prevalentemente riparatoria, compensativa e consolatoria, debba essere messo a disposizione dei danneggiati tempestivamente, senza costringerli ad attendere i tempi di una causa civile.
Crediamo, quindi, che questa ordinanza abbia fatto sostanzialmente giustizia.
§ 5.2 C’era una soluzione alternativa?
Miglior giustizia avrebbe fatto, probabilmente, un diverso contegno delle strutture sanitarie.
Se è vero, come è vero e come dimostrano i dati, che sono circa due su tre gli ATP che si concludono con una affermazione di responsabilità professionale sanitaria, è probabile che occorra un ripensamento.
Certo: esistono anche casi in cui le aziende non riescono a gestire i sinistri in via stragiudiziale per giustificati motivi.
E tuttavia, almeno nella nostra esperienza professionale, sono ancora molti, troppi, i casi in cui questa incapacità deriva dai tempi biblici con cui vengono condotte le istruttorie interne alle aziende, oppure – forse più spesso – da una politica di mero risparmio economico o di cieco rinvio al futuro (alla prossima gestione) da parte della struttura sanitaria o della sua compagnia assicuratrice.
Siamo convinti che occorra un approccio differente.
Siamo convinti dell’urgenza, per le strutture sanitarie, di adottare una impostazione più costruttiva e meno sordamente difensiva sin dalle fasi preliminari del contraddittorio, e soprattutto in ATP, in special modo quando le evidenze indicano chiaramente la loro responsabilità.
Siamo convinti che sia possibile una sanità più seria e responsabile, anche sul versante del contenzioso medico legale.
Qui sotto puoi visionare il provvedimento di condanna