Correlazione tra imputazione contestata e sentenza - Avv. Raffaele Caravella

Il principio di ‘correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza’ ex art. 521 c.p.p.

Ultimo Aggiornamento 20 Maggio 2024

Un particolare caso di responsabilità in ambito sanitario ex art. 590 sexies c.p.

La corretta individuazione, da parte del Pubblico Ministero, della condotta da imputare al medico in un processo penale per responsabilità sanitaria può assumere valore decisivo, stante il principio processual-penalistico di “correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza”.

Come noto, infatti, la giurisdizione del giudice penale (alla stregua, per vero, del giudice civile) è limitata alla contestazione che viene formulata nella imputazione, ossia al momento dell’esercizio dell’azione penale da parte del magistrato dell’ufficio del Pubblico Ministero.

Proprio in un nostro recente processo penale, una scorretta individuazione della condotta che alcuni medici avevano tenuto in violazione delle linee guida, causale e colposa rispetto all’evento verificatosi (decesso del paziente), ha determinato negativamente le sorti del processo penale, avendo il Giudice ritenuto dover trasmettere (rectius, restituire) gli atti al P.M. per un nuovo esercizio dell’azione, proprio in ragione della difformità tra la condotta contestata in imputazione e la condotta che dalle risultanze probatorie emergeva in concreto come imputabile loro e meritevole di condanna.

Una ordinanza di restituzione, dunque, nonostante il Giudice avesse riconosciuto la piena responsabilità dei tre medici per il decesso del paziente.

Una ordinanza della cui correttezza giuridica, ad ogni modo, sarà opportuno discutere.


INDICE SOMMARIO


§ 1. L’imputazione e l’esercizio dell’azione penale

L’imputazione consiste nell’attribuzione di uno specifico illecito penale ad un soggetto, che in conseguenza di essa assume la qualifica di imputato.

Questa attribuzione si compie mediante l’esercizio dell’azione penale, ossia quando la pubblica accusa (salvo casi eccezionali in cui tale potere è conferito al giudice di pace su istanza della persona offesa) chiede al Giudice di decidere sulla colpevolezza di un soggetto rispetto ad un determinato reato.

Come il processo civile, infatti, anche il processo penale ha inizio con una domanda (l’azione esercitata dal P.M.) e si conclude con la risposta a tale domanda (la sentenza del giudice).

L’oggetto dell’imputazione, dunque, consiste in un concreto fatto di reato che viene contestato a colui che si ritiene averlo commesso, e della cui commissione (in senso lato) si chiede verificazione al Giudice per il tramite di uno sviluppo processuale a carattere probatorio e decisorio.

§ 2. I reati di mera condotta ed i reati di evento

Il reato (id est l’illecito penale), come noto, consta di una struttura bipartita (secondo alcuni tripartita, ma possiamo tralasciare questo argomento), e si compone di un elemento oggettivo e di un elemento soggettivo.

La forma dell’elemento oggettivo dipende dal tipo di reato che viene in considerazione: nei cosiddetti reati di mera condotta, infatti, l’elemento oggettivo si configura come semplice condotta; nei cosiddetti reati di evento, viceversa, l’elemento oggettivo presenta una sotto-struttura così individuata: condotta – nesso causale – evento:

  • La condotta, per il diritto, assume rilevanza tanto in forma di azione quanto in forma di non-azione (id est di omissione).
    Sul piano naturalistico si è soliti individuare l’azione nella spendita di energia fisica, un trasferimento dall’interno all’esterno, in modo che si producano certi effetti: si può rappresentare attraverso l’immagine del movimento corporeo idoneo ad offendere l’interesse protetto dalla norma.
    L’omissione viene intesa come un «non facere, un quid vacui», ma resta ancora discussa la sua configurabilità sul piano naturalistico, trattandosi appunto di un vuoto.
    Se ne riconosce pacificamente, invece, la sua natura normativa, in ragione della quale si costituisce come il «non compiere l’azione possibile, che il soggetto ha il dovere giuridico di compiere (non facere quod debeatur)[1]».
  • L’evento, ai nostri fini, viene inteso come una modifica dello stato del mondo lesiva di un bene protetto dall’ordinamento giuridico.

[1] F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, Cedam, Padova, VIII Ed., 2013, p. 133.

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§ 3. I reati di evento a forma libera (causalmente orientati): la responsabilità penale sanitaria

Tra i reati di evento, la dottrina penalistica distingue i reati a forma vincolata dai reati a forma libera (o causalmente orientati): mentre per i primi il legislatore individua e definisce la forma di ciascun accadimento costituente la sotto-struttura dell’elemento oggettivo (e dunque sia la condotta che l’evento, non invece il nesso causale risolvendosi quest’ultimo in una connessione tra accadimenti), per i secondi il legislatore individua e descrive esclusivamente l’evento, mancando invece di determinarne la condotta.

Per quest’ultimi, dunque, in punto di illiceità, non assume rilevanza la modalità concreta in cui il soggetto cagiona l’evento: interessa soltanto che quell’evento gli sia imputabile causalmente (da qui le denominazioni: a ‘forma libera’, infatti, esprime l’indifferenza della specifica condotta realizzata dal reo; ‘causalmente orientati’ evoca la esclusiva rilevanza del collegamento eziologico tra la condotta e l’evento).

Gli illeciti afferenti alla categoria della cosiddetta ‘responsabilità penale sanitaria’ sono di evento a forma libera.

§ 4. L’imputazione in concreto nei reati di evento a forma libera

Dal quadro delineato, emerge la seguente questione logico-giuridica fondamentale ai fini della nostra indagine: la libertà di forma nella realizzazione dell’evento legittima una minore compiutezza di contenuto sul piano della imputazione?

La risposta è negativa: l’imputazione deve essere completa, nel senso che l’addebito deve indicare ogni accadimento in concreto integrante gli elementi necessari della sotto-struttura oggettiva dell’illecito.

D’altra parte, se la consumazione del reato prescinde dalla specifica condotta, è pur sempre necessario, ovviamente, che una specifica condotta sia la causa dell’evento particolare.

Ed a ben vedere, prima ancora che a presidio del diritto di difesa, tale impostazione si pone come necessaria allo stesso P.M., il quale non potrà contestare la produzione di alcun evento senza ricostruire una linea eziologica e dunque inevitabilmente ipotizzare una condotta cagionante: la stessa finalità probatoria dell’illecito, propria del processo, impone la prova della specifica modalità causativa dell’evento.

Dunque, se il legislatore può configurare una fattispecie di reato prescindendo dalle modalità di realizzazione dell’evento, la pubblica accusa deve, nell’esercizio dell’azione penale, esplicitare quale ritenga sia stata la condotta da cui dipende causalmente l’evento disvoluto.

Ma allora, se la contestazione della concreta condotta risulta indefettibile allo stesso impianto accusatorio e dunque processuale, la domanda che residua è in quali termini, e con quale livello di determinazione, essa si pone come presupposto irrinunciabile a garantire l’imputato della pienezza della difesa.

La risposta è complessa, e necessita di ulteriori chiarimenti.

§ 5. Le modifiche all’imputazione previste dall’ordinamento

Prima di provare a rispondere, si rende opportuno fornire una panoramica sulla possibile evoluzione dell’imputazione nel corso del processo.

Il legislatore, come visto, prevede che l’imputazione sia cristallizzata al momento della richiesta di rinvio a giudizio (rectius, dell’esercizio dell’azione penale).

Tuttavia, la fase delle indagini preliminari si caratterizza tendenzialmente per un deficit istruttorio suscettibile di essere ridotto o colmato in fase giudiziale: è questa la ragione per cui lo stesso legislatore ha introdotto l’istituto delle cosiddette nuove contestazioni, normate agli articoli 516, 517 e 518 c.p.p., e foggiate in modo da non comprimere le garanzie difensive.

In particolare, l’art. 516 c.p.p. contempla il caso in cui, dalle risultanze probatorie, emerga che il fatto storico è diverso da come descritto nel capo di imputazione (potendo noi tralasciare le fattispecie di cui agli artt. 517 e 518 c.p.p. relative, rispettivamente, all’emersione di un reato connesso o di una circostanza aggravante, la prima, e di un fatto nuovo, la seconda: in tali ultime ipotesi, infatti, l’imputazione viene accresciuta, ma non ne vengono modificati i singoli capi).

Dunque, quando il fatto (rectius, uno degli elementi costitutivi del fatto di reato) risulta diverso da come inizialmente ricostruito, il P.M. contesta il nuovo fatto di reato modificando così l’imputazione.

§ 5.1 Le modifiche dell’imputazione previste dall’ordinamento: a chi competono?

La manualistica accorda solo al P.M., ex littera legis, il potere di modificare il fatto storico di cui all’imputazione (cfr., ad es., P. Tonini): sul punto nulla quaestio.

È legittimo, però, chiedersi se in capo al Giudice residui quantomeno una facoltà di sollecitazione in tal senso.

Nessun dubbio, infatti, sull’esercizio dell’azione penale quale appannaggio della Procura.

E tuttavia, a sommesso avviso di chi scrive, non esiste né una norma né una ragione giuridica che osti ad un simile intervento del Giudice: a ben vedere, nonostante una diversità funzionale tra l’ipotesi in discussione e la fattispecie di cui all’art. 507 c.p.p., sembra corretto rilevare un parallelo tra queste ultime.

Insomma, si può immaginare la sollecitazione, alla stregua della previsione di cui all’art. 507 c.p.p., proprio finalizzata alla salvaguardia del processo e di tutti gli atti sino ad allora compiuti.

Credo si possa sostenere che, dunque, se l’art. 507 c.p.p. è posto a presidio della completezza istruttoria, la correttezza dell’imputazione, con antecedenza logica, ambisce alla correttezza nella determinazione dell’oggetto dell’istruzione dibattimentale.

§ 6. L’imputazione nei processi di responsabilità sanitaria

Per i casi di responsabilità professionale medica le cose non stanno diversamente da come per le altre figure di illecito.

Questo paragrafo vuole soltanto evidenziare la peculiarità che connota tali processi in termini di complessità dell’imputazione di condotta e dunque della possibile consistente frequenza di sue modifiche in corso di giudizio.

Infatti, le cause in ambito sanitario si caratterizzano per un elevato (a volte elevatissimo) livello di tecnicità medico-legale e clinica, che inevitabilmente influisce sulla formulazione dell’imputazione, la quale emerge di fatto dalla ricostruzione compiuta dai consulenti tecnici (o comunque ne è condizionata in corso di processo).

Detto tasso di tecnicità implica la significativa possibilità che, nelle more dell’istruttoria dibattimentale (o già nel corso dell’udienza preliminare), la condotta incriminata assuma una fisionomia diversa da quella contemplata al momento dell’esercizio dell’azione penale: quando ciò avviene, occorre che la pubblica accusa si convinca della bontà delle nuove configurazioni e vi ponga rimedio, ricorrendo agli strumenti indicati al paragrafo precedente.

Ma, e qui ritornano le domande già sollevate, assestare l’imputazione in corso di processo si rende necessario in ragione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato?
Se sì, anche per i reati a forma libera?
Insomma, qual è la portata del limite che il principio di correlazione pone al Giudice?

Proviamo a precisare la questione: se l’imputazione della condotta concreta è strumento necessario da un lato al P.M., al fine di spiegare l’attribuzione dell’evento (il come l’evento è stato cagionato), e da altro lato al Giudice, il quale dovrà in sentenza spiegare la condanna, su quale piano opera allora la corrispondenza tra chiesto e pronunciato?

E se tale principio, come sembra indubitato, è posto a garanzia dell’imputato, quale grado di rigidità deve essergli conferito affinché espleti la propria funzione?

Ancora meglio, quale precisa forma deve assumere la correlazione (ed anzi, dovremmo dire, deve assumere la contestazione)?

Le domande vengono declinate in questi termini proprio al fine di meglio preparare il lettore alla conclusione proposta alla presente indagine.

E si ritiene altresì utile, allo stesso fine, dapprima verificare l’applicazione del principio di correlazione alla luce di una decisione di merito, relativa a responsabilità medica, probabilmente non espressione dell’indirizzo nomofilattico prevalente.

§ 7. La mancata correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza in ambito di responsabilità sanitaria: un caso concreto

Alla luce di tutto quanto rappresentato, dunque, proviamo ad analizzare un recente caso concreto.

Tre medici sono stati tratti a processo penale per omicidio in cooperazione colposa.

In particolare, al primo medico veniva imputato di “non aver prescritto il necessario intervento di colecistectomia per via laparotomica, effettuato solo in data 22.01.2015, nonostante al momento del ricovero in data 14.01.2015 fosse già stata diagnosticata una ‘colecistite acuta da idrope/empiema’, così contravvenendo alle principali direttive della comunità scientifica internazionale, che prescrivono per il trattamento di tale patologia l’opzione chirurgica entro 72 ore dalla diagnosi”.

Agli altri due medici veniva imputato “di aver cagionato, in cooperazione tra loro, il decesso del paziente per non aver diligentemente eseguito l’intervento di colecistectomia anterograda per via laparotomica, determinando una lesione della via biliare principale”.

Il Tribunale ha ritenuto, tuttavia, di porre a fondamento della decisione “la ricostruzione medico-legale effettuata dal consulente delle parti civili (rappresentate dal nostro studio).

Tale ricostruzione differiva, in punto di condotta, dalle contestazioni effettuate dalla Procura.

Anzitutto, l’imputazione faceva cominciare la condotta in data 14.01.2015.

Per ragioni di sintesi, diciamo subito che il Giudice ha ritenuto, sulla scia della consulenza tecnica valorizzata, quanto segue:

solo per i pazienti con grado I (lieve), si raccomanda la colecistectomia in fase precoce entro le 72 ore dall’insorgenza dei sintomi. Per i pazienti con grado II (moderato), in presenza di una grave infiammazione locale occorre eseguire un drenaggio biliare immediato: è indicato il drenaggio precoce della colecisti (percutaneo o chirurgico). Questo perché la colecistectomia precoce può essere di difficile esecuzione e comportare complicanze obiettivamente prevedibili. Per i pazienti di grado II (moderato) e III (severo), ad alto rischio chirurgico, occorre dunque una tempestiva gestione della grave infiammazione locale eseguendo immediatamente il drenaggio biliare. Per tali pazienti la colecistectomia deve essere quindi ritardata ed eseguita dopo un intervallo di 3 mesi e solo dopo che le condizioni generali del paziente sono migliorate (…) Venendo al caso di specie (…) può ritenersi acclarato dall’istruttoria dibattimentale che alla data del ricovero in medicina d’urgenza del 14.01.2015 (e già in data 13.01.2015 presso il P.S., ndr), il paziente si trovava in una situazione di sepsi severa secondo le linee guida sulla sepsi 2013, secondaria ad una colecistite acuta di grado III, cioè severa, secondo le menzionate linee guida di Tokio (…)
Sulla scorta di tale quadro diagnostico il trattamento chirurgico doveroso, non attuato tempestivamente dai medici che ebbero in cura il paziente, non era dunque quello indicato nell’imputazione, ossia di colecistectomia laparoscopica (…) bensì un tempestivo intervento di colecistomia percutanea temporanea, solo eventualmente seguita, a distanza di tempo, dalla colecistectomia laparoscopica, a raffreddamento del quadro settico in atto
”.

Tutto ciò premesso, così ha concluso il Tribunale:

il fatto-reato ascrivibile agli imputati sopra indicati è diverso da quello indicato nell’imputazione (e) secondo la giurisprudenza di legittimità, per fatto diverso rispetto a quello contestato deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali e modalità della condotta difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione della ricostruzione degli elementi essenziali del fatto (cfr. Cass. Sez. 3, n. 8965 del 16.01.2019; Cass. Sez. 3, n. 8078 del 10.10.2018).
(…) Traendo le conclusioni, a fronte di tale quadro probatorio, emerso all’esito del dibattimento, è in primo luogo impossibile per il Tribunale addivenire ad una pronuncia di condanna dei predetti imputati. La regola della necessaria correlazione tra accusa e sentenza è, anzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio, e a garantire la pienezza del diritto di difesa degli imputati. Il giudice è chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato per i soli fatti descritti nel capo di imputazione, essendogli preclusa la possibilità di una pronuncia di condanna per un fatto che – come nella specie – risulti acclarato dal compendio delle prove acquisite all’esito dell’istruzione dibattimentale, ma sia ‘diverso’ da quello contestato. In tale ipotesi il Tribunale non può neppure pronunciare sentenza assolutoria degli imputati perché al p.m. sarebbe preclusa ogni nuova azione penale, per effetto della regola generale del ‘ne bis in idem’ di cui all’art. 649 c.p.p., con la conseguente non punibilità radicale – sia in ambito penale che civile – degli imputati che risultino comunque aver commesso un reato/fatto illecito, seppur diverso da quello contestato (…). Soccorre in tal senso la previsione di cui all’art. 521 comma 2 c.p.p. che dispone che il giudice in questo caso (…) restituisca gli atti al pubblico ministero perché questi possa procedere, se del caso e ferma ogni valutazione ritenuta di competenza, a un nuovo esercizio dell’azione penale sulla base del fatto emerso in giudizio
”.

Così, il giudice ha pronunciato, nel marzo 2023, ordinanza di rimessione degli atti al P.M.

§ 8. Il principio di ‘correlazione tra imputazione contestata e sentenza’ alla prova della giurisprudenza di Cassazione: conclusioni

Al termine di questo breve discorso, proviamo dunque a rispondere alle domande in precedenza evocate.

Stando a quanto rappresentato dal Giudice nel pronunciamento relativo al caso concreto riportato al paragrafo precedente, si potrebbe senza indugio concludere come segue: ogni modifica del fatto-reato storicamente configurato, ed imputato al momento dell’esercizio dell’azione penale, deve essere formalmente contestata tramite lo strumento di cui all’art. 516 c.p.p., pena la violazione del principio di ‘correlazione tra imputazione contestata e sentenza’ in caso di condanna, da parte del Giudice, per il fatto nella sua nuova configurazione.

La realtà del diritto, tuttavia, è spesso più complessa di come appare prima facie, e la fenomenologia del principio di correlazione non sembra fare eccezione a tale complessità.

Esiste, infatti, una cospicua – ed a quanto pare prevalente – giurisprudenza di Cassazione che esprime una esegesi differente del principio de quo.

Tale filone nomofilattico, si può dire provando a coglierne il fil rouge, interpreta il principio di correlazione in termini sostanziali, tracciandone la forma attraverso un’interpretazione di natura teleologica.

Si riportano di seguito alcune pronunce in tal senso emblematiche della Suprema Corte.

La giurisprudenza rilevante

Per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione”.

(Cassazione penale, Sez. Un., n. 36551 del 15/07/2010)

Dove si riporta che “ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 c.p.p. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione” (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi, Rv. 257278)”.

(Cassazione penale sez. II – 27/01/2022, n. 9957)

Secondo consolidato orientamento, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell’obbligo di contestazione suppletiva di cui all’art. 516 c.p.p. e dell’eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell’art. 521 medesimo codice (Sez. 4, Sentenza n. 18390 del 15/02/2018 Ud. (dep. 27/04/2018) Rv. 273265 – 01). In argomento, si è anche precisato che il ricorso per cassazione con cui si deduca la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ai fini della sua ammissibilità, non può limitarsi a segnalare la mancanza formale di coincidenza tra l’imputazione originaria e il fatto ritenuto in sentenza, dovendo altresì allegare il concreto pregiudizio che ne è derivato per l’esercizio del diritto di difesa, non sussistendo la violazione predetta ove, sulla ricostruzione del fatto operata dal giudice, le parti si siano confrontate nel processo (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, PG C/Castaldo Mario, Rv. 281997)”.

(Cassazione penale sez. IV – 02/02/2022, n. 13720)

Più volte, questa Corte di legittimità ha chiarito che le norme concernenti le nuove contestazioni, le modificazioni dell’imputazione e la necessaria correlazione tra essa e la sentenza hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio e, con esso, il pieno esercizio del diritto di difesa e in questa prospettiva devono essere interpretate. Non possono, pertanto, ritenersi violate ogniqualvolta l’accusa originaria sia stata modificata, ma solo quando tale mutamento abbia pregiudicato il diritto di difesa e la condanna sia intervenuta per un “fatto”, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale l’imputato non abbia potuto difendersi”.

(Cassazione penale sez. IV – 05/04/2023, n. 15833)

Alcune conclusioni

Sembra che tali decisioni possano ascriversi tutte ad una massima enunciabile come segue: laddove la novità dell’imputazione si limiti ad una sopraggiunta valorizzazione di elementi fattuali già parti integranti del processo penale e dunque contestati, seppure implicitamente, all’imputato, allora al Giudice sarà concesso condannare senza che vi sia violazione del principio di correlazione.

Una simile ricostruzione si fregerebbe del pregio di estendere il piano semantico del principio di correlazione oltre i confini strettamente letterali, ma senza oltrepassarne il proprium posto a presidio della piena partecipazione dell’imputato al processo.

Gli elementi essenziali integranti la sotto-struttura oggettiva del fatto-reato, dunque, non dovrebbero necessariamente essere letteralmente esplicitati all’interno del capo d’imputazione, ma è sufficiente che siano in qualche modo contestati, cioè che lo siano sostanzialmente.

Ma, se così stanno le cose, quale concreta forma applicativa residua per tale principio?

Quando in casi simili (e ciò sembra valere maggiormente per le norme processuali) ci si affranca dalla forma per approdare alla sostanza, inevitabilmente emerge, con tutto il suo portato, la difficoltà di tale distinzione.

In particolare, nel caso che trattiamo, il punctum dolens sembra rinvenirsi nella debolezza di una contestazione in termini che rischiano di sfociare in una abrogazione per via esegetica della prescrizione legislativa.

Il tentativo (apprezzabile) della Suprema Corte di alleggerire il principio di correlazione ampliando gli spazi operativi del Giudice alla luce dell’evoluzione concreta dell’iter processuale, avrebbe forse potuto essere accompagnato dalla individuazione specifica delle condizioni da cui dedurre l’assenza di pregiudizio in capo all’imputato che si vede condannare per un fatto diverso da quello formalmente imputatogli.

In conclusione, a mio sommesso avviso, la pienezza del contraddittorio non può che intendersi in punto di prova: sarà possibile attribuire in condanna un fatto diverso da quello formalmente contestato, non soltanto laddove presente nella narrazione processuale, ma a condizione che l’imputato abbia avuto il modo ed il tempo di introdurre mezzi di prova tesi a confutare la diversa configurazione.
E, ancora, a condizione che i nuovi elementi manifestino una evidente intelligibilità penale, cioè si presentino chiaramente come potenzialmente sostitutivi di altre determinazioni ed atti ad integrare, in luogo di queste ultime, la fattispecie penalistica.

Nel caso di responsabilità sanitaria trattato al paragrafo precedente, allora, può ritenersi che la C.T.P. di parte civile si costituisca come contestazione sostanziale?

Probabilmente sì, avendo la C.T.P. di parte civile integrato l’oggetto del dibattimento ed essendo divenuta dunque suscettibile di contraddittorio da parte degli imputati; avendo avuto gli imputati, ancora, la possibilità di integrare le proprie consulenze tecniche di parte.

Ritengo, tuttavia, che la ricostruzione della Cassazione inevitabilmente finisca per valorizzare (si veda il § 5.1) la sollecitazione del Giudice alla modifica di cui all’art. 516 c.p.p. e, soprattutto, il potere di cui al 507 c.p.p., in quanto ciò che diviene fondamentale è capire entro quali limiti grava sull’imputato l’onere di difendersi da contestazioni sostanziali, non formalizzate, giusta la possibilità per il giudice di condannare per il fatto non imputato.

Ad avviso di chi scrive, si dovrebbero tenere ferme quantomeno le poc’anzi menzionate condizioni.

L’intero discorso sinora tenuto attesta una volta in più, ove ve ne fosse bisogno, l’assoluta preferibilità della strada civilistica, rispetto a quella penalistica della “denuncia per malasanità“, per chi intenda adire il Giudice al fine di ottenere il risarcimento dei danni da cosiddetta responsabilità sanitaria.

Il provvedimento in questione