Danno Terminale Risarcimento - Avv. Gabriele Chiarini

Il danno terminale e il suo risarcimento

Ultimo Aggiornamento 20 Maggio 2024

Cos’è il danno terminale, quali sono le sue componenti e come si procede alla relativa liquidazione

Quando si parla di danno da morte, vengono in rilievo – e, talvolta, si sovrappongono – concetti quali “danno tanatologico”, “danno terminale“, “danno catastrofale”, che rimandano tutti, in un modo o nell’altro, alle conseguenze pregiudizievoli conseguenti al decesso di una persona, ma sono spesso oggetto di confusione o fraintendimento.

Nate per designare univocamente una specifica tipologia di danno (più o meno risarcibile, lo vedremo tra poco), in realtà queste novelle “categorie dogmatiche” appaiono tutt’altro che perspicue, tanto che probabilmente hanno creato più problemi di quelli che avrebbero inteso risolvere.

Poiché, tuttavia, si tratta di nozioni ormai entrate a far parte del lessico giuridico corrente, cerchiamo almeno di fare un po’ di chiarezza, descrivendo esattamente cosa si intende per danno terminale, danno catastrofale e danno tanatologico. Specifichiamo, poi, se e quando ne sia ammesso il risarcimento, prendendo spunto da una recente pronuncia della Suprema Corte che ha confermato gli approdi ermeneutici maturati da cinque anni a questa parte (Cass. VI, 06/10/2020, n. 21508).


§ 1. Danno terminale versus danno da perdita della vita (o danno tanatologico)

Cominciamo con la nozione di cui è stata perentoriamente esclusa l’attitudine a dar luogo a risarcimento: il cd. “danno tanatologico” (dal greco θάνατος, thànatos: “morte”), che beninteso è altra cosa rispetto al danno terminale, di cui parleremo nei paragrafi a seguire. Il danno tanatologico è (o sarebbe, nelle intenzioni di chi lo ha propugnato) il danno da perdita della vita o – detto in altri termini – il danno che, per chi muore, consisterebbe nel fatto stesso di morire.

Non pochi interpreti, anche autorevoli, avevano provato a – e alcuni, per il vero, insistono nel – sostenere che, poiché la vita è un diritto, la sua soppressione deve costituire un danno. Anzi, essi aggiungono, se è risarcibile il pregiudizio da lesione del bene “salute”, a fortiori lo sarà quello da lesione del bene “vita”, che risponde chiaramente a un interesse di rango superiore. Per inciso, se fosse riconosciuto, il risarcimento di questo danno (tanatologico, appunto) non potrebbe essere liquidato al titolare del diritto soppresso, poiché evidentemente non più in vita. A giovarsene, dunque, sarebbero gli eredi, che subentrerebbero iure successionis nel relativo credito, tanto ciò vero – come osservato già da Cass. III, 24/03/2011, n. 6754 – che concedere la tutela risarcitoria del danno tanatologico “corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti“.

Ad ogni modo, l’indubbio fascino argomentativo delle tesi favorevoli alla risarcibilità del danno tanatologico aveva aperto una breccia finanche nelle aule del Palazzaccio, al punto che la sentenza di Cass. III, 23/01/2014, n. 1361, con una motivazione dotta e articolata, aveva ammesso esplicitamente la risarcibilità, iure hereditatis, del danno da perdita della vita verificatasi immediatamente dopo il fatto lesivo, con ciò ponendosi in consapevole dissenso rispetto al consolidato orientamento che tale risarcibilità aveva invece, sin dal 1925, sempre negato.

Proprio al fine di comporre questo contrasto, sono allora intervenute – nel 2015 – le Sezioni Unite della Suprema Corte che, nella sentenza di Cass. SU, 22/07/2015, n. 15350, hanno preferito la tesi negativa, ribadendo che la persona deceduta per un fatto illecito non può acquistare (e conseguentemente trasferire ai propri eredi) alcun risarcimento per la perdita della propria vita. La legittimità di questa scelta interpretativa, peraltro, era già stata assicurata, oltre vent’anni prima, dalla stessa Consulta (Corte Cost. 27/10/1994, n. 372).

§ 2. Il danno terminale propriamente detto

Quanto abbiamo appena affermato circa l’irrisarcibilità del danno tanatologico, beninteso, concerne il caso di morte istantanea. Se, invece, il decesso non è immediato, ma intercorre un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione ed il decesso, si riapre uno spazio di risarcibilità e acquista rilievo la nozione di “danno terminale” vero e proprio.

Infatti, il danno terminale viene inteso come il pregiudizio sofferto dalla vittima di un fatto lesivo che non deceda immediatamente, ma sopravviva per un certo periodo dopo l’illecito. Chiariremo nei prossimi paragrafi quanto a lungo debba protrarsi la sopravvivenza per consentire al danneggiato di acquistare, prima della morte, e trasmettere poi agli eredi, questo credito risarcitorio. Anticipiamo subito, ad ogni modo, che si tratta – almeno potenzialmente – di una duplice tipologia di danno, in entrambi in casi di carattere non patrimoniale.

§ 3. La componente biologica del danno terminale

La prima categoria di pregiudizio che viene in rilievo è il danno biologico temporaneo che il soggetto soffra dalla lesione alla morte.
In linea con i principi generali, il danno biologico temporaneo consiste nella perdita della possibilità, durante una malattia, di attendere alle proprie ordinarie occupazioni. Questa impossibilità – si insegna – sussiste sia quando la malattia termini con la guarigione, sia quando finisca con il decesso.

Pertanto, la persona che, in conseguenza di un fatto illecito, rimanga per un certo periodo di tempo in condizione di invalidità temporanea (totale o parziale), e poi venga a mancare, acquista, prima della morte, un danno terminale, nella sua componente biologica, che può dunque trasmettere agli eredi.
Per inciso, la componente biologica del danno terminale va risarcita tanto se il danneggiato fosse in stato di coscienza durante il tempo di sopravvivenza, quanto se fosse in stato di incoscienza, poiché la perdita connessa al danno biologico temporaneo si realizza a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia.

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§ 3.1 La durata della sopravvivenza nel danno biologico terminale

Poiché il danno biologico temporaneo viene computato – come illustra la miglior dottrina – de die in diem, è ragionevole ipotizzare che non possa dar diritto a risarcimento una invalidità temporanea di durata inferiore al giorno. In effetti, qualsiasi pregiudizio, per consentire l’accesso al risarcimento, deve superare la soglia di “apprezzabilità”. E, in questo senso, sarebbe difficile apprezzare, e quindi valorizzare economicamente, le attività che la vittima possa aver perso (perché in ciò, ricordiamo, consiste il danno biologico temporaneo) nel corso di una sopravvivenza durata solo poche ore, o addirittura pochi minuti.

Dunque, la componente biologica del danno terminale può essere risarcita solo se la sopravvivenza si sia protratta più di 24 ore e andrà rapportata ai giorni di vita trascorsi sino alla morte.

Con la precisazione, naturalmente, che trattasi di un danno biologico temporaneo del tutto peculiare, che va perciò liquidato attraverso una adeguata personalizzazione del quantum, idonea a considerare la speciale intensità di una invalidità temporanea che esiti nel decesso del danneggiato, come tentano di fare anche le “tabelle” di Roma e quelle di Milano.

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§ 4. La componente morale del danno terminale (o danno catastrofale)

La seconda categoria di pregiudizio che può integrare il danno terminale è un danno morale che il soggetto patisca prima della morte.

Si tratta dei sentimenti negativi a vario titolo provati dalla vittima, che vengono tradizionalmente ricondotti alla cd. formido mortis (paura di morire), ma che possono includere diverse sfumature di angoscia e sofferenza, connesse sia al dolore fisico per le lesioni che condurranno al decesso, sia alla disperazione di abbandonare le persone care e tutti i beni della vita.

E’ chiaro che, per poter dire configurata questa componente morale del danno terminale (talvolta designata come “catastrofale”), è necessario che la vittima sia cosciente, poiché non si può soffrire, né provare dolore, né comprendere che la propria fine sia imminente, se non si abbia consapevolezza di sé.

§ 4.1 La durata della sopravvivenza nel danno morale terminale (catastrofale)

Diversamente da quanto accade per il danno biologico terminale (che, di regola, non può essere risarcito se la sopravvivenza è inferiore alle 24 ore), il danno morale terminale (o “catastrofale”) non postula una soglia minima di durata della sopravvivenza, in quanto sorge nel momento in cui la vittima acquisisca consapevolezza della propria fine imminente ed è quindi configurabile se essa sia stata cosciente della propria morte anche per un lasso di tempo brevissimo.

Così, ad esempio, la Suprema Corte ha riconosciuto la necessità di risarcire il danno morale terminale ad un ciclista sopravvissuto per due ore e mezza dal momento in cui era stato investito da una autovettura, restando sveglio e sofferente sino alla morte, poiché negare detto risarcimento non sarebbe stato rispettoso del diritto alla dignità della persona umana di cui all’art. 2 Cost. (cfr. Cass. III, 23/10/2018, n. 26727). La stessa Cassazione, in altra vicenda che abbiamo avuto l’onore di patrocinare, ha ritenuto risarcibile il danno catastrofale maturato nelle quasi sette ore trascorse dall’arrivo in ospedale di un giovane paziente ricoverato per i postumi di un incidente stradale al suo decesso, imputabile a malpractice (cfr. Cass. III, 05/05/2021, n. 11719).

Resta inteso, ad ogni modo, che la durata della sopravvivenza – se non rappresenta elemento costitutivo del diritto al risarcimento del danno catastrofale – assume però rilievo in sede di determinazione del quantum liquidabile. Infatti, a parità di intensità, una sofferenza protrattasi più a lungo provoca ovviamente un danno maggiore.

§ 5. La conferma di Cass. 21508/2020 in tema di (non risarcibilità del) danno tanatologico e di (presupposti per la risarcibilità del) danno terminale

Così, nel confermare gli orientamenti sin qui descritti, l’ordinanza di Cass. VI, 06/10/2020, n. 21508 (Rel. Gorgoni) ha ricordato quanto segue:

E’ necessario ribadire che in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass., Sez. Un., 22/07/2015, n. 15350).

Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (‘danno morale terminale’), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di ‘lucidità agonica’, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta ‘manifestamente lucida’ (Cass. 23/10/2018, n. 26727)“.

Cass. VI, 06/10/2020, n. 21508

La decisione in commento ha altresì ribadito che l’esclusione della risarcibilità ex se del danno non patrimoniale da perdita istantanea della vita (“danno tanatologico”) non collide col riconoscimento del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“C.E.D.U.“). Infatti, questa norma – pur diretta a proteggere in via generale il bene “vita” – non prescrive né impone una modalità specifica in cui la tutela della vita debba realizzarsi. Perciò essa non potrebbe essere invocata per giustificare una tutela necessariamente risarcitoria in caso di decesso immediatamente conseguente a fatto illecito, che stravolgerebbe il vigente sistema della responsabilità civile, fondato sul concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sé considerato.